Il Commercialista gira nervosamente il cucchiaino nella tazzina del caffé. Ci siamo ritrovati per caso. E’ stato strano entrare in un bar e trovarlo lì. Mi sono appena seduto, pranziamo insieme? Ha sempre la sua aria buffa da bambino, come quando mi diceva Tu non mi vuoi bene. Ma d’altronde nessuno me ne vuole. Allora, sembrava un ragazzetto che puntava i piedi. Ora, mi guarda con gli occhi eccessivamente azzurri e stanchi e mi fa ancora le domande indiscrete che mi faceva una volta. Come se l’aver conosciuto in passato alcuni aspetti di me, il mio corpo senza vestiti o il mio modo di gemere, gli avesse concesso il diritto perpetuo di conoscere le pieghe della mia anima. Non gli rispondo. Lo trovo irritante e mi pento di aver accettato di sedermi lì con lui. Mi sei mancata. Tu, invece, non mi sei mancato affatto, penso io, ma non dico niente. Lo guardo e sembra un ragazzino, coi suoi capelli biondi arruffati e le domande inappropriate e i discorsi inutili sui suoi sentimenti. A pensarci bene, quando eravamo insieme, non mi ha mai chiesto, neanche una volta, come stessi; per lui, esisteva soltanto lui stesso, con le sue tempeste nei bicchieri d’acqua, le insicurezze e la solitudine irreversibile. Lo guardo e lo vedo giovane e disperato ma non riesco a provare tenerezza alcuna; mi sento annientata dal disprezzo, disprezzo per lui e per me che tanto tempo fa gli ho permesso di farmi vittima dei suoi capricci e delle sue piccinerie.
E’ arrivato il momento di andare. Si avvicina per baciarmi su una guancia. Mi tiro indietro e alzo una mano in segno di saluto. Buon pomeriggio, dico. Ci vediamo, dice lui. Speriamo di no, penso io, ma anche stavolta non dico niente.