Questa non è, né può essere, una recensione. Per pre-recensione, o recensione immaginaria, si intende il commento a un film non ancora uscito basato su trailer, foto, informazioni, rumors.The Grand Budapest Hotel, regia di Wes Anderson. Con Ralph Fiennes, Tony Revolori, F. Murray Abraham, Adrien Brody, Mathieu Amalric, Jeff Goldblum, Jude Law, Harvey Keitel, Bill Murray, Edward Norton, Saorise Ronan, Léa Seydoux, Jason Schwartzman, Tilda Swinton, Tom Wikilson, Owen Wilson. Uscita italiana nella primavera 2014.
In America uscirà il 7 marzo, la prima mondiale sarà in apertura del Berlino Film Festival il prossimo 6 febbraio. Intanto il sito ufficiale ha messo a disposizione il primo trailer, in HD, un ricco e ghiotto assaggio di questo nuovo film di Wes Anderson: molto atteso, e non c’è bisogno di dire il perché. Si pensi solo che l’ultimo lavoro del signor regista dei Tenenbaum, quella delizia di Moonrise Kingdom, ha incassato nel mondo 68.263.166 dollari, di cui 45 milioni e mezzo solo in America. Pas mal, per un autore adorato, ma comunque di nicchia. Da quando se ne sa e si può vedere dal materiale oggi disponibile, The Grand Budapest Hotel segna insieme una forte rottura e un’assoluta continuità nel cinema del suo autore. La continuità è tutta nello stile, inconfondibilmente wesandersoniano fino al manierismo, con le figure stilizzate quasi a figurine di un gioco infantile, con la sua palette di colori svariante tra il giallo, il rosso, l’arancione, il fucsia, il viola, con parecchie escursioni nel blu e nel bianco abbacinato. Adulti e ragazzi, e adulti che sono ancora e sempre ragazzi e di crescere non hanno nessuna voglia. Eppure stavolta Anderson si toglie dal suo mondo, quello che ci ha sempre descritto, e per la prima volta si mette in gioco con un period movie che lo costringe a traslocare le sue ossessioni e adattarle a un mondo lontano, non conosciuto e solo immaginato. Il che potrebbe togliere al suo cinema quella patina di autoreferenzialità, di ombelicalità che anche nei momenti più alti resiste e si fa sentire, eccome. Stavolta la sua stanza dei giochi e il teatrino dove mettere di nuovo in scena i propri fantasmi, WA li colloca negli anni Venti, nell’Europa di mezzo, in uno stato fittizio – ha detto lui al Roma Festival dov’è venuto a presentare il corto Castello Cavalcanti finanziato da Prada – che sta tra Polonia, Ungheria, Boemia, Germania. Siamo in un hotel di alto rango – gente che va gente che viene – dove la figura dominante, e il centro della storia, è il concierge Gustave H, uomo di leggendaria esperienza e professionalità (Ralph Fiennes). Microcosmo in cui si riflette un’Europa appena uscita dalla Grande Guerra, ma che non rinuncia ai riti sociali e internazionali del lusso, della mondanità, dell’esibizione del proprio status. A sorpresa (almeno per me lo è stata, una sorpresa) sempre a Roma Anderson ha detto di essersi richiamato ai romanzi di Stefan Zwig, cantore popolarissimo e venduto a milioni di copie di quell’Europa sospesa tra le due guerre, e tra due tragedie, e come vogliosa di rimuovere e dimenticare. L’altro richiamo il regista lo ha fatto – ed è stata un’altra sorpresa – a Ernst Lubitsch e alle sue commedie di assoluta perfezione, sempre intrise di disincanto mitteleuropeo e travolgente humor yiddish. Due modelli di riferimento che lasciano pensare come The Grand Hotel Budapest sia l’opera più matura di WA, la più consapevole e densa, un passaggio per il suo autore a una adultità espressiva e narrativa finora continuamente rimandata. Il plot, per quanto s’è riusciti a sapere, ha davvero qualcosa di lubitschiano, tra Mancia competente e Angelo e Montecarlo. I pezzi di vita e i tanti personaggi mescolati rimandano anche a Grand Hotel di Edmund Goulding con Greta Garbo, e la figura dello scrittore-testimone interpretato da Jude Law e certe distese di neve lasciano pensare a La montagna incantata di Thomas Mann. Il concierge del Grand Budapest Hotel Gustave H prende sotto la sua ala protettiva il lobby boy Zero Moustafa, stabilendo con lui un’alleanza che si rivelerà ferrea e sopravviverà a precchie traversie. Gustave è l’amante segreto di Madame D, un’anziana nobildonna di immensa ricchezza (una Tilda Swinton invecchiata e resa quasi irriconoscibile dal make up, in una dei suoi molti morphing di questi ultimi tempi, vedi anche il precedente Anderson Moonrise Kingdom e il coreano, appena visto a Roma, Snowpiercer) che verrà trovata uccisa. Al momento della lettura del testamento si scoprirà che un suo prezioso quadro rinascimentale, Il ragazzo con la mela, è stato lasciato in eredità proprio a Gustave H. Si incazza il figlio di Madame (un Adrien Brody con i baffi), si addensano i sospetti di omicidio sul concierge, che finirà in galera. Intorno, una serie di figure maggiori e minori, con un cast che impressiona. Ci sono fedelissimi di Anderson, Bill Murray, Jason Schwartzman, Adrien Brody, Owen Wilson, Edward Norton, la stessa Tilda Swinton, ci sono nuove entrate come Fiennes, Mathieu Amalric, Jude Law, Harvey Keitel. Da questo Wes Anderson che si misura, pure se in chiave di commedia e con il tripudio coloristico che gli è solito e congeniale, con le ombre della Mitteleuropa, c’è davvero da aspettarsi parecchio. Giusto che venga presentato in prima alla Berlinale, visto che è stato girato quasi tutto in Germania, tra gli studi Babelsberg di Potsdam e la Sassonia, e visto che alla Germania entre deux guerres vi si allude.
Tasso di aspettativa: 10/10