L'ANALISI - Nel paese nordico la massima flessibilità si coniuga con alti sussidi di disoccupazione. Un modello virtuoso al quale ispirarci
Precari e felici? Si può. Ma non in Italia. Si chiama
flexsecurity, un neologismo che sta ad indicare la flessibilità sicura nel mercato del lavoro, una concezione totalmente opposta a quella che vige nel nostro paese dove il sogno del posto fisso, sogno peraltro sempre più irrealizzabile, sembra essere l’unica speranza per una vita dignitosa.
Flessibilità e sicurezza, il modello danese. Arriva dalla Danimarca e sembra essere la formula ideale per ridare anche ai giovani italiani la possibilità di tornare a sperare. Ma come è possibile coniugare flessibilità contrattuale alla sicurezza del reddito? Nel paese nordico non esistono posti fissi. Si può essere licenziati. Ma allo stesso tempo lo Stato garantisce un reddito minimo per due anni con l’obbligo di riqualificarsi con corsi di formazione e di lavoro non retribuito. Questo modello è stato applicato in Danimarca per la prima volta nel 1993, diciannove anni fa. Un tempo sufficiente nel quale ha dimostrato di aver funzionato piuttosto bene, migliorando le condizioni di tutti i lavoratori e ridando competitività alle aziende, valorizzando maggiormente il merito e la capacità.
Una speranza per i giovani. A causa della crisi il sistema danese è stato messo duramente alla prova. Se prima il sussidio era di sette anni, recentemente è stato portato a due. Inoltre, il tasso di disoccupazione, che nel 2008 era del 3,4%, è salito quasi ai livelli italiani (7,8% contro l’8,9%). Ma il dato veramente significativo è quello relativo alla disoccupazione giovanile. Nel paese nordico gli under 25 che sono senza impiego rappresentano il 14%, ben sette punti percentuali in meno rispetto alla media Ue; un abisso se confrontato con i dati italiani: 31%.
Uno strumento di equità sociale. Questo sistema, oltre a dare maggiori chance ai giovani e più competitività alle imprese, riesce nell’impresa più ardua, cioè nel rappresentare un efficace meccanismo di equità sociale. Oggi in Italia esiste il lavoratore di serie A e quello di serie B, al di là dei guadagni e delle retribuzioni. Esiste chi è assunto a tempo indeterminato ed è protetto dall’articolo 18 e dalla cassa integrazione. Esiste poi chi, licenziabile senza preavviso, non usufruisce di alcun sussidio. Tra questi, in primo luogo, i giovani. Solo il 20-25% di chi inizia a lavorare oggi ottiene un’assunzione a tempo indeterminato. Gli altri? Carne da macello. Così è difficile non solo metter su famiglia, ma anche andar via di casa. In Danimarca, invece, il sistema annulla qualsiasi disuguaglianza. Tutto questo ha un costo in termini di tassazione, piuttosto elevato, ma i danesi non vogliono rinunciarvi.
Niente soldi senza riqualificazione. E proprio gli elevati costi spinge lo Stato a far funzionare bene il meccanismo di riqualificazione ed inserimento. Attualmente il reddito garantito dal welfare può coprire fino al 90% dell’ultima retribuzione, ma solo se il disoccupato dimostra la reale intenzione di ricercare un nuovo impiego anche attraverso piani individuali di aggiornamento.Certo, non tutto può essere preso ed impiantato in un paese come il nostro che ha aspetti strutturali e culturali diversi dalla Danimarca. Il paese nordico ha un debito pubblico notevolmente inferiore e un tasso di evasione fiscale che sfiora lo zero. Da noi mancano i soldi, o vengono sprecati. In Danimarca la pressione fiscale si attesta al 48,5% del pil, con il 43% di quella italiana. E se tra Italia e Danimarca non c’è poi tutta questa differenza sul livello di tassazione, c’è invece un abisso rispetto ai servizi al cittadino. Per questo il sistema danese da solo non basta. È necessario prima riformare l’Italia.