Le organizzazioni sindacali classiche non riescono a far presa sulla molteplicità di un fenomeno che da poco iniziano a comprendere nelle sue dimensioni, i partiti politici italiani sono poco più che cordate di potere e sottopotere costruite attorno a un leader mediatico, il Parlamento è impegnato a legiferare per proteggere Berlusconi dalle sue stesse sconsideratezze: la solitudine in cui i giovani sono relegati che veniva ieri denunciata è l’altra faccia del vuoto di una società senza idee per il futuro.
A mio avviso la questione centrale è dunque quale forma di società e quali modalità di lavoro, soprattutto intellettuale, vogliamo nel nostro futuro.
Il 6 marzo scorso Paul Krugman si è chiesto si vi è ancora una relazione diretta tra titolo di studio e reddito. Si tratta appunto del sogno spezzato di tanta classe media anche italiana, che ha fatto sacrifici per mandare i figli all’università per poi vederli sottoccupati e dipendenti dall’aiuto familiare anche oltre i 30 anni. Krugman evidenzia che da circa un ventennio negli Stati Uniti diminuiscono i lavori a reddito medio e crescono significativamente le occupazioni a reddito basso o molto alto. Per semplificare si può dire che un computer riesce a sostituire le procedure routinarie d’ufficio ma non a fare da badante o il cardiochirurgo.
Mentre Daniel Indiviglio dalle colonne della rivista Atlantic ha argomentato sbrigativamente che l’università non è per tutti, che non vi è bisogno di laurearsi in criminologia per poi fare i poliziotti e che mentre si spendono soldi studiando si perdono tante profittevoli occasioni di lavoro e di reddito, argomentazioni riprese in Italia da Marina Valensise (con il tipico gusto Barnesiano per la semplificazione brutale che ha il gruppo de Il Foglio), la questione del riordino del sistema formativo dei paesi occidentali non può essere posta solo come un costo da ridurre per lo Stato e le famiglie. Krugman evidenzia dal canto suo che vi è il dramma collettivo della perdita del potere d’acquisto dei lavoratori medi e bassi e aggiunge che bisogna garantire diritti universali come quello all’assistenza sanitaria.
Mi permetto di aggiungere che vi è anche un altro problema: l’eccesso di offerta di lavoratori della conoscenza rispetto a quanto richiede il mercato. La precarietà in certi settori è almeno in parte conseguenza di questo squilibrio. A questo dobbiamo aggiungere una scarsa consapevolezza da parte di tanti giovani che pur di entrare nei settori lavorativi cui aspirano son disposti ad accettare qualsiasi negazione dei diritti di base di ogni lavoratore. Si tratta di veri e propri lumpen-cognitari, giovani che si perdono nell’illusione che fare per benino il compitino assegnato consentirà loro di trovare un vero lavoro e con le loro scelte finiscono per azzerare la capacità negoziale e la dignità professionale di intere categorie, soprattutto nei territori estesi e dagli instabili confini della comunicazione.
D’altra parte non mi sembra che il conformismo con cui schiere di giovani hanno accettato stage a ripetizione a pochi o zero euro li abbia salvati dal precariato e da condizioni di vita che sono di povertà relativa (che sfocerebbe in povertà assoluta senza l’aiuto della famiglia). Ma il lumpen cognitario vede con supponente diffidenza le esperienze di autorganizzazione di quanti sono consapevoli della loro condizione lavorativa. E quando dopo qualche anno questi si accorge che non potrà mai andare oltre i 1000 euro mensili a termine vi sono già schiere di stagisti pronti e capaci a fare le sue mansioni praticamente gratis.
Ma allora che fare? Non si può di certo immaginare che decine di migliaia di giovani, spesso fortemente spoliticizzati, possano prendere coscienza tutti insieme e iniziare ad avanzare domani le loro giuste rivendicazioni. Dunque non è con una sindacalizzazione di massa che si affronta il problema.
Il problema a mio avviso può essere affrontato facendo passare in tutti gli strati sociali l’idea che la conoscenza è un bene comune come l’acqua o l’aria. E come bene comune ogni Stato e ogni organizzazione sovranazionale deve mettere in campo azioni e iniziative per proteggerla, accrescerla e distribuirla. Se la Unione Europea avesse voluto diventare “la più competitiva e dinamica economia della conoscenza entro il 2010” come recitava nel 2000 la strategia di Lisbona avrebbe dovuto escludere dal computo del deficit degli Stati membri gli investimenti e le spese in ricerca, formazione ed educazione.
Così come Keynes ha dimostrato che il mercato da solo non raggiunge mai la piena occupazione, una società basata sulla conoscenza deve essere consapevole che il mercato non richiederà mai conoscenza nei settori e nelle quantità (per fortuna strabordanti) in cui essa viene oggi prodotta e per questo devono intervenire gli Stati e gli organismi sovranazionali per promuovere progetti e iniziative capaci di mettere a valore le intelligenze oggi precarie. In questo modo si drenerà la domanda in determinati settori incrementando il potere negoziale di chi è più qualificato: laureate in archeologia o filologia classica potranno finalmente sviluppare progetti di ricerca consoni ai loro studi e non donarsi alle agenzie di comunicazione in stage gratuiti senza futuro.
Se nei tempi passati l’istruzione significava promozione dei cittadini i quali al contempo investivano su se stessi e sulla propria capacità di generare reddito, oggi il livello di conoscenza diffusa è il valore latente di ogni ricchezza che può generare una società.
Si può lasciare decidere il futuro di questo valore ai calcoli di un commercialista di Sondrio?