Predestination
di Michael e Peter Spierig
con Ethan Hawke, Sarah Snook, Noah Taylor
Australia, 2014
genere, fantascienza
durata, 97'
Ci rendiamo conto che raccontare la trama di un film come
“Predestination”, interamente costruita sui paradossi temporali che
derivano dalle capacità dei protagonisti di spostarsi nel tempo e nello
spazio, è pressochè impossibile. Si tratterebbe infatti di snaturare una
vicenda che nasce e prende forma dalla circolarità della sua natura e
dal conseguente gioco di specchi tra le personalità dei protagonisti del
film, uniti, con diversa consapevolezza nel tentativo di anticipare le
manifestazione del male. Come succedeva in “Minority Report”, anche qui
siamo di fronte a un gruppo di agenti segreti che, sotto mentite spoglie
e con particolari vincoli procedurali, è in grado di precorrere le
minacce dei vari malintenzionati. Ed è proprio la cattura del più
famigerato tra quelli ancora in libertà, soprannominato “la madre
nubile”, a costituire l’ultimo incarico dell’agente speciale
interpretato da Ethan Hawke, chiamato a guadagnarsi la pensione non
prima di aver impedito al metodico criminale di organizzare un attentato
terroristico nella New York degli anni 70.
Detto che il
film è tratto dal racconto di culto “Tutti voi zombie”, scritto da
Robert A. Heinlen nel 1959, “Predestination” conferma, dopo
“Daybreakers”, la tendenza degli autori a raccontare storie dominate dal
segno di una diversità fisiologica – e in questo caso transgender -
che impedisce di essere felici. Di certo “Predestination” nella sua
appartenenza al filone fantascientifico, si preoccupa di dire la propria
sul mondo che verrà, tratteggiato con quelle caratteristiche di
globalizzazione, qui esasperate dalla possibilità di far convivere
epoche diverse all’interno della stessa esistenza.
Ma quello che risalta
maggiormente, e che costituisce il motivo della sua peculiarità è la
tendenza del film a rifugiarsi in territori meno scontati e più intimi,
corrispondenti al bisogno di normalità dei protagonisti, che li spinge a
condividere i bisogni e le pulsioni più nascoste. Quello che ne viene
fuori è quindi un prodotto a doppio passo; che affascina, quando,
nell’assoluta predominanza di dialoghi e primi piani, si trasforma in un
kammerspiel dalle atmosfere malinconiche e dolorose, e che
invece perde colpi nel momento in cui si lancia in una visionarietà
frenata non poco dalla normalità di una forma, incapace di rappresentare
in termini di flusso visuale, la sfrenata fantasia dei suoi
protagonisti.