Nella vita di ogni essere, come in quella di un popolo, accadono cose che destabilizzano, apparentemente ingiuste, enormi ed inspiegabili: pare davvero che la vita in quanto tale non vi possa prescindere. Del resto il fatto stesso che vita faccia paio con morte, dovrebbe metterci sull’avviso.
Ogni epoca ha voluto/dovuto spiegare il grande paradosso ed il termine che più ricorre è quello di destino. Anche nel Mahabharata c’è un continuo riferirsi al destino.
Per “concreto passaggio esperienziale” non intendo semplicemente entrare in contatto con qualcosa di cui abbiamo già fatto esperienza, intendo una preparazione prima ed un’elaborazione dopo alla luce di principi etici condivisi e, soprattutto, interiorizzati: questo può dare una prospettiva che salva anche sotto le bombe.
Chi scrive appartiene ad una generazione che è entrata in andropausa senza vedere nel suo paese una guerra, un’epidemia o una carestia come quelle che hanno flagellato altri continenti ed altre epoche, dove, al “destino” individuale, si è sommata una tragedia sociale della quale è ancora più improbabile darsi una spiegazione. Rimango pertanto al piano individuale, già assai enigmatico, per dire che la nostra esistenza è un sottile sentiero appoggiato sopra una massa infinitamente grande di materia sconosciuta, chiamatela inconscio, oppure destino, volontà degli Dèi, karma o come vi pare, rimane il fatto che noi possiamo, per usare una metafora del Maestro Marco Ferrini, decidere di intrecciare come ci pare il nostro filo in una trama spessa, densamente affollata di ogni sfumatura di colore, insieme a miliardi di altri esseri ed in una dimensione che prescinde dalla dimensione spazio-temporale da noi normalmente accettata.
Noi rimarremo comunque un mistero a noi stessi! L’unica via concessa è di nuovo un paradosso: diventare consapevoli di non essere quello che crediamo di essere. In questo processo sta l’individuazione di un altro io che possiamo definire più per quello che non è, piuttosto che per quel che è. Noi siamo sovrastati da forze inconcepibili, sballottati da eventi inimmaginabili come naufraghi nella tempesta, eppure possiamo rimanere stabili, dignitosi e felici, da una parte abbassando la testa in omaggio alla grandiosità di questo accadere che talvolta sembra infierire tanto rovinosamente quanto ingiustamente, talaltra alzando il nostro braccio per contrastare l’ingiustizia e la sopraffazione.
Non siamo Dèi, ma portiamo in noi una parte della loro luce, il nostro compito è conservarla e riconsegnarla, attraverso una condotta che il maestro chiama dharmia, ovvero ispirata a quei principi etici universali che fanno girare i pianeti intorno al sole, permettono all’emoglobina di fissare il ferro e all’essere umano di sentirsi a suo agio in un mondo allo stesso tempo affascinante e terrificante.
Come la quasi totalità degli uomini, quando ho avuto a che fare con un “brutto destino”, qualche volta non riuscendomi proprio a spiegare dove avevo sbagliato, ricordo di aver pensato che quella tal cosa mi avrebbe fatto soffrire per sempre, che sarebbe stata la mia rovina o una tara che mi sarei portato dietro fino alla tomba. Ora che i miei capelli stanno cambiando colore, mi guardo indietro e vedo il beneficio quel “destino avverso”, quante energie sprecate nel contrastare l’incontrastabile!
Il lasciare che le cose vadano come vanno, se non è guidato dalla pigrizia ma dalla consapevolezza e dall’umiltà, non è la debolezza di chi si arrende sconfitto, ma la forza di chi sa accettare di giocare nel campo sterminato dell’esistenza (Kurukshetra-Dharmakshetra).
Dedicato ad una persona cara.
Graziano Rinaldi
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