di Romano Maria Levante
Questa ricostruzione è basata sulle notizie contenute nell’aureo libretto “Le storie della preistoria al museo Salinas” a cura del museo stesso per la Regione siciliana, che colma la lacuna delle modalità espositive tradizionali – i copiosi reperti sono allineati e identificati soltanto con le etichette – in attesa che la ristrutturazione in atto nell’edificio valorizzi meglio la ricchezza dei reperti esplicitando contesto e percorso storico.
Il contenuto delle 34 vetrine espositive può essere inizialmente riassunto in ordine a tre aspetti significativi: con la fauna l’uomo preistorico doveva confrontarsi fin dalla sua comparsa sulla terra, ad essa era collegata l’arte primitiva, per questo definita “arte animalistica” in quanto espressa attraverso graffiti e dipinti rupestri nelle grotte dov’erano le prime abitazioni, mentre gli ornamenti ne accompagnano la storia fin dalle epoche più remote, a partire dai ciottoli levigati e dai denti o conchiglie forati e collegati in collane. Questi aspetti saranno più chiari una volta inquadrati nelle necropoli, massima fonte dei reperti, negli abitanti, in particolare della “Conca d’Oro”, e nell’alimentazione, una molla per l’evoluzione della tecnologia e più in generale dei sistemi di vita.
Necropoli e riti funerari nella preistoria siciliana
Le necropoli siciliane sono numerose e ricche di reperti, vanno dal Paleolitico all’Età del Ferro e consentono, quindi, di avere una visione molto ampia: dalle forme più semplici a quelle più complesse di sepoltura, con una molteplicità di riti e di consuetudini che variano non soltanto in base al periodo considerato ma anche al sito archeologico dove sono avvenuti i rinvenimenti.
Si tratta di una constatazione importante tenendo conto che le sepolture sono una testimonianza non solo dei rituali funebri, ma soprattutto della vita dell’epoca perché la tomba era considerata dai parenti una seconda casa in quanto, secondo la loro credenza religiosa, dopo la morte il defunto continuava a vivere nell’aldilà, e ciò spiega il ritrovamento all’interno delle tombe di corredi funerari costituiti da gioielli, utensili e offerte alimentari. Così Rosaria Di Salvo introduce la sua accurata ricognizione delle “Sepolture e riti funerari nella Sicilia preistorica” ricomponendo in una visione d’insieme i tanti reperti esposti nelle vetrine con le sole etichette e senza commenti.
Da quanto predisposto per il mondo ultraterreno abbiamo conosciuto tante cose sul mondo terreno, perché i rituali funerari servivano a mettere i due mondi in comunicazione, e per questo nei corredi del defunto veniva collocato quanto faceva parte della sua vita e della sua epoca.
Ma oltre a tali elementi, dai resti pervenuti si sono avute notizie antropologiche a largo raggio, fino a stato di salute e alimentazione, attività lavorativa e condizioni ambientali. Troviamo tombe a inumazione e a incenerimento, primarie e secondarie, individuali e multiple; la posizione dei defunti distesa o rannicchiata, con gambe flesse o in un altro assetto; i resti da inumazione nella loro consunzione naturale o di colore rosso se cosparsi di ocra secondo un rito anche purificatorio; i resti da incenerimento in cromatismi diversi a seconda della temperatura di cremazione, e se inferiore a quella di polverizzazione lasciando notevoli frammenti con deformazioni e alterazioni, comunque idonei ad un’analisi osteologia al pari di quelli delle tombe a incenerimento.
Nello scorrere delle ere preistoriche si nota un’evoluzione dei corredi funerari parallela a quella della vita reale: dai più semplici costituiti da ciottoli disegnati e da utensili di selce, alle prime collane di conchiglie degli abitanti nelle grotte, ai primi lavori in terracotta nel Neolitico per passare a corredi sempre più elaborati nel Bronzo, che diventano ricchi e preziosi nel Ferro e quindi in epoca storica. Diciamo in genere “corredo del defunto”, composto come è noto dal corredo personale, con oggetti e ornamenti che riflettono le sue condizioni sociali e la sua attività, cui si aggiungono i resti delle offerte rituali nel culto funerario. Quindi utensili a lato del corpo, in selce e osso, legno e terracotta; gioielli fatti di conchiglie forate, bracciali e pendenti, orecchini e ciondoli in osso e avorio, i più antichi in pietra; perfino il cibo per l’alimentazione. Non bisogna dimenticare che in alcune nostre tradizioni, pur di credenti nella fede cattolica, rimaste almeno fino all’ultimo dopoguerra, nella sepoltura venivano poste monete per pagare il viaggio nell’oltretomba, oltre ad oggetti della vita del defunto che lo avrebbero accompagnato nell’al di là.
Una rapida carrellata nei molteplici siti archeologici siciliani, in aggiunta a quanto anticipato, ci fa scoprire i primi resti umani del Paleolitico, intorno a 35 mila anni fa, nel Riparo di Fontana Nova, vicino a Marina di Ragusa, in frammenti che non hanno consentito analisi significative; mentre hanno dato risultati quelle eseguite sui resti rinvenuti nella zona della Grotta di San Teodoro ad Acquedolci, Ragusa, risalenti a 14.000 anni fa: 4 uomini e 3 donne in posizione supina di decubito, arti distesi, fosse di forma rettangolare in uno strato di ocra, ciottoli levigati, lame e punteruoli in selce, perfino denti di cervo forati per collane primordiali.
Il passaggio al Mesolitico, documentato dalle sepolture della Grotta d’Oriente a Favignana, Trapani, mostra nelle fosse coperte da pietre i resti di un individuo maschile con un ciottolo e una lama, un grattatoio di selce e 11 conchiglie forate all’altezza dello sterno appartenenti a una collana; 8 conchiglie nella vicina tomba di una donna sono poste all’altezza delle clavicole, con 3 ciottoli rotondi e un punteruolo; i resti della donna hanno gli arti in posizione inconsueta.
Il Mesolitico nella Grotta dell’Uzzo – la più consistente, ma c’è anche la Grotta della Molara, a Palermo – rivela diverse forme tombali, da ovali a quadrate, i corpi sotto le pietre in posizione supina, rannicchiati con le gambe flesse per entrare nel vano ristretto e le braccia lungo il corpo; anche qui ciottoli levigati, selci lavorate, ossi a forma di punteruolo e ancora ornamenti fatti di conchiglie e denti di cervo forati; in più resti di cibo. Il tutto in 13 corpi, 6 di sesso maschile, 4 femminile e 3 bambini, un quadro esauriente dell’epoca alla quale risale la grotta.
ndando avanti nel tempo, nel Neolitico il passaggio dalla vita nomade a quella stanziale si riflette anche nel fatto che la Grotta del Monte Kronio, Agrigento - nella quale sono stati trovati pochi resti femminili – era un luogo di raduno, forse per riti collegati a fenomeni di origine termale; più cospicui i ritrovamenti nella Trincea fossato di Stretto Partanna, con i frammenti scomposti di resti di 7 individui, da incinerazione incompleta e sepoltura secondaria, V-VI millennio a.C.
I siti dell’Eneolitico sono numerosi, le tombe sono poste soprattutto in grotte naturali non più utilizzate come abitazioni essendosi costituiti i villaggi, e anche in piccole grotte artificiali. Dato che la tomba viene ormai concepita come l’abitazione dello scomparso, non è più una fossa singola ma diventa collettiva per i membri della famiglia, nella forma a forno con pozzetto di accesso. Così nella necropoli di Piano Vento a Montechiaro, Agrigento, sono stati trovati circa 50 corpi sepolti con l’uso di cospargerli di ocra rossa, adottata per ridurre le esalazioni e purificarli; e resti di animali sacrificati nei riti funerari, con pasti documentati dai frammenti di vasellame che veniva spezzato. Significative, per altro verso, le tombe di Roccazzo a Mazara del Vallo, Trapani, riunite in corrispondenza dei nuclei di capanne, a forma cilindrica con pozzetto; singole o doppie con corredi collegati al censo del defunto che comprendevano, oltre ai ciottoli e agli utensili di selci, a punte di freccia e conchiglie forate, anche vasi decorati, ciotole e olle grigie o rosse per l’ocra.
Con l’Età del Bronzo, i flussi migratori portarono nuove abitudini anche nelle sepolture, a Lipari sono state rinvenute urne cinerarie con 30 tombe a incinerazione anche se l’inumazione resta prevalente, con tombe individuali e collettive. Il sito di Castelluccio esprime una cultura che si diffuse e troviamo almeno in 8 località tra cui Castelluccio di Noto: villaggi con capanne circolari e il focolare al centro, una comunità stanziale dedita all’allevamento, agricoltura e artigianato, tombe per lo più collettive scavate nei pendii con chiusure decorate; anche monumentali come quella del “principe” scavata nella roccia con camera funeraria retta da pilastri. Corredi variamente assortiti o assenti, elementi di terracotta a forma di corni oltre ai consueti di selce e osso, conchiglie e denti.
La necropoli di Marcita, a Castelvetrano, Trapani, con oltre 100 individui di entrambi i sessi e di diverse età, mostra soggetti anche di altra etnia e ricchi corredi, mentre in quella dei Sesi a Pantelleria troviamo oggetti litici su ossidiana e di terracotta per mensa, articoli ornamentali e resti ovini e caprini. Una struttura particolare si nota nella necropoli di Thapsos, Siracusa, con una cella fornita di vestibolo accessibile da un pozzetto, un corridoio e nicchie radiali; nei corredi anche vasi in ceramica importati da Cipro, Malta e da Micene, e oggetti in bronzo; addirittura tracce di oro in collane, e articoli ornamentali in pasta di vetro colorata, ambra e avorio.
La struttura si evolve ancora con tombe ad alveare scavate sulle pareti rocciose nelle necropoli di Pantelica, Dessueri e Caltagirone, con piccole celle circolari o grandi camere che introducevano a celle multiple per 4-5 soggetti della stessa famiglia: nei corredi coltelli e armi, nonché oggetti di ornamento come fibule e specchi, anelli e collane in bronzo, in relazione alla posizione e al censo.
Nell’Età del Ferro, dal IX al VI a.C., le tombe, poste sui fianchi delle alture vicino ai villaggi, sono inserite in ampie camere funerarie chiuse da un muro o una porta, il corpo non più in posizione rannicchiata ma disteso con sopra e intorno gli elementi del corredo. A Polizzello di Mussomeli, Caltanissetta, in circa 100 tombe ricavate sui fianchi della montagna in cavità naturali, sono stati trovati parecchi reperti: nelle tombe di adulti molte ossa di bovini, essendo il bue animale sacro, in quelle per bambini solo ossa di ovini e caprini di giovane età, evidentemente per associarla alla loro. I corredi sono sempre più ricchi, esprimono le condizioni di vita del defunto e lo stadio evolutivo raggiunto, ormai elevato.
Gli abitanti preistorici della Conca d’oro in Sicilia
Questa zona, dove sorge Palermo, risulta abitata sin dalla preistoria ben prima dei fenici e romani, arabi e normanni: precisamente dal Paleolitico non in modo stanziale ma con il nomadismo della caccia. Le grotte che si trovano sulle alture circostanti favorivano questi insediamenti per sostare, provvedere alle attività quotidiane e poi per le sepolture; non sono nascoste, si vedono dalla piana e proprio questo ha fatto sì che la gran parte dei reperti venissero dispersi nel tempo. Sono stati trovati anche resti ossei di elefanti e ippopotami chiamati ossa dei Giganti e dei Ciclopi, lo raccontano la citata Rosaria di Salvo e Vittoria Schimmenti ricostruendo come vivevano “Gli antichi abitanti della Conca d’Oro” nella stessa pubblicazione del Museo Salinas. Nella Grotta delle Incisioni dell’Addaura e dell’Antro nero o dei Bovidi ci sono graffiti parietali, così nella Grotta Niscemi e in altre, dove sono stati rinvenuti resti di animali, bue e cinghiale, cervo e cavallo ”idruntino”, nonché gusci di molluschi.
Nella Grotta della Molara, in una zona interna, si vedono i segni del passaggio dal Paleolitico al Mesolitico allorché fu utilizzata per le sepolture. Dagli scheletri rinvenuti – con crani tipo Cromagnon – si è ricostruito l’uso dei denti come terza mano per trattenere fibre vegetali, corde, bastoni, utensili, oltre che per assumere cibi crudi; anche nella Grotta di San Ciro le ossa ritenute dei Giganti e insieme selci che attestano l’abitazione degli uomini preistorici. Evolvono i modi di vita nel Neolitico, quando si trasferiscono nei villaggi pur mantenendo contatti con le grotte dove oltre alle sepolture porteranno gli animali di allevamento e affineranno gli utensili.
Con l’Età del Rame si diffondono i villaggi nella Conca d’Oro, con le rispettive necropoli che attraverso i corredi funerari hanno fornito molti elementi sul tipo di vita. Nei villaggi tra Partanna e Mondello – in quest’ultimo trovate 12 capanne – oltre alla caccia sul Monte Pellegrino si praticava la pesca; nelle tombe sul monte si sono rinvenute ceramiche e utensili di pietra che fanno pensare a una primordiale industria litica. A Boccadifalco, oltre a selci, ossidiana e vasi di vario tipo sono stati trovati un anello di rame e una collana; analogamente nella contrada Sant’Isidoro. Si è potuta ricostruire la fisognomica degli antichi abitanti; rispetto a quelli delle ere precedenti i loro tratti somatici si addolciscono, la corporatura si fa più armoniosa; tra i due sessi c’è differenza nella conformazione delle ossa e nell’altezza media, le donne 152 centimetri, dieci in meno degli uomini.
Interessante il processo di gracilizzazione che segue la civilizzazione e la vita stanziale in condizioni ambientali sfavorevoli con diffusione soprattutto di artrosi alle articolazioni. Sembra inoltre che il loro carattere fosse pacifico, data l’assenza di segni di morte violenta: c’è solo un caso di lesione traumatica ossea però rimarginata, quindi non letale. Colpisce l’osservazione che sorgevano villaggi marinari dove oggi è Via Roma, al centro di Palermo, e il mare giungeva dov’è ora la vicina Via Maqueda, addirittura vi attraccavano le imbarcazioni per la pesca.
Nel Bronzo il progresso è testimoniato da una fiasca decorata rinvenuta nel Riparo della Moarda, ma non si sono trovati reperti ceramici della cosiddetta cultura della Conca d’Oro e non se ne conoscono le ragioni. Dov’è oggi l’aeroporto c’era il sopra citato villaggio preistorico di Boccadifalco, di cui sono state rinvenute soltanto 7 capanne.
Il trovarsi nel centro cittadino, con Via Roma e Via Maqueda, fa capire quanti reperti siano andati perduti nell’urbanizzazione distruttiva, soprattutto negli anni in cui non si prestava attenzione ai ritrovamenti e comunque si tendeva a non segnalarli per evitare onerosi fermi nell’attività edilizia.
Elementi aggiuntivi su come vivevano li fornisce Vittoria Schimmenti nel suo “A tavola con gli antenati”; abbiamo parlato direttamente con la studiosa nella nostra visita al Museo e l’abbiamo sentita animata da passione per le ricostruzioni preistoriche che trovano nell’apposita Sezione del Museo Salinas un ricchissimo materiale, forse meno conosciuto e apprezzato di come meriterebbe.
In effetti attraverso la tavola si ricostruisce l’intera giornata, tutta impegnata nel procurarsi il cibo anche con utensili la cui preparazione impegnava essa stessa il resto del tempo. Dopo Tucidide troviamo altre due citazioni classiche, questa volta ad opera della Schimmenti, su come si alimentavano gli antichi. Lucrezio Caro nel I a.C. scriveva: “I primitivi si cibavano solo con quello che la terra dava spontaneamente”. E, dato che siamo in Sicilia, ecco Diodoro Siculo due secoli dopo: “I primitivi andavano per le selve e vivevano solo di erbe, di radici e di frutti; vivevano nudi, senza casa e senza fuoco”.
La raccolta spontanea di alimenti da consumare crudi riguardava i frutti della quercia e del corbezzolo, del mirto e della vite selvatica, dell’ulivo selvatico e dell’alloro, del carrubo e del fico; vengono citate anche bacche e radici, germogli e bulbi di fiori e foglie. La carne procurata con la caccia rappresentava il 20% di una dieta molto vegetariana, proveniva dal bue e dal cavallo della antica specie “hudruntinus”, dal cinghiale e dal cervo; forse anche da uccelli come quaglia e pernice. Oltre a carne, interiora e grasso per alimentarsi, si recuperavano i denti, specie del cervo per ornamenti, le corna e le ossa per gli utensili, e soprattutto la pelliccia per proteggersi dal freddo. Le condizioni con cui si alimentavano svilupparono gli enzimi e i muscoli mandibolari, ma si logoravano i denti anche perché usati come una terza mano per usi più pesanti della masticazione.
Cambiò molto quando fu possibile utilizzare il fuoco per cuocere i cibi oltre che per riscaldarsi e per difendersi dalle fiere; aumentò l’impegno per procurarsi la legna da ardere e si costruirono spiedi e utensili rudimentali con diversi materiali per spolpare gli animali e tagliare la carne. Addirittura le lame erano inserite in supporti di legno e venivano predisposte con bordi dai tagli diversi per meglio lacerare la carne. Usavano arpioni, fiocine e selci piantate su bastoni per infilzare la preda; per lo più pesci lungo gli scogli, nel Mesolitico dentici e murene, cefali e orate; c’era anche la raccolta di molluschi e crostacei e nelle zone interne di lumache. Nei reperti della Grotta dell’Uzzo, le analisi paleonutrizionali hanno accertato la prevalenza di alimenti marini e di vegetali, e il consumo di frutti come fichi, carrube e datteri i cui zuccheri creavano carie rilevate nei denti.
Nel Neolitico, con la ceramica si potevano cuocere sul fuoco anche i vegetali, non solo la carne negli spiedi: di qui lo sviluppo di recipienti, vasi e vasellame fino a brocche e bicchieri per i liquidi. Non si ricorre più alle forme naturali di conchiglie e ossa cave, si preparano cucchiai in legno e terracotta. E siamo alla rivoluzione neolitica che cambia le abitudini alimentari con l’abbandono del nomadismo per l’agricoltura e l’allevamento degli animali, in particolare buoi e capre, cavalli e pecore: infatti, avere una produzione stabile e programmata consentiva di variare la dieta, aumentare il consumo di carne e utilizzare il latte degli allevamenti che, fatto coagulare, dava il formaggio. A questo punto la caccia veniva praticata meno, come fonte solo accessoria di carne.
Molteplici sono le coltivazioni, dai cereali ai legumi, agli alberi da frutta dei tipi oggi molto noti, come le mele e le pere: si ricorre ad accorgimenti e a nuovi utensili come le macine e i pestelli; il primo pane veniva cotto sulle pietre senza lievito con farine di frumento assolutamente integrali.
L’accurata ricognizione della Schimmenti sembra la cronaca di anni molto vicini a noi, parla di zappe di legno per scavare e di falci per mietere, nonché di accette, pur se di pietra levigata, per tagliare gli alberi. Il progresso – anche se si è ancora nella preistoria – incalza; si essiccano i prodotti per non farli deteriorare e si cospargono di sale, scoperto per un’evaporazione casuale di acqua di mare; verrà usato nella concia delle pelli nell’Era dei metalli. Ma siamo ancora nel Neolitico, la pesca si pratica con lenze e reti oltre che con gli arnesi da punta prima indicati; i resti rinvenuti di delfini e perfino di balene non provengono dalla pesca, ma dall’essersi arenati per venire poi recuperati e utilizzati dagli uomini primitivi: i graffiti della Grotta del Genovese, a Levanzo, raffigurano tonni e delfini.
Il mare, oltre che mediante la pesca, fornisce alimenti con le importazioni dal Mediterraneo e dall’Oriente di prodotti quali grano e orzo, sconosciuti nel Neolitico, come era sconosciuta la capra.
Con l’Età del Rame divennero più efficienti gli utensili per la coltivazione, l’allevamento e la pesca e, come si è detto, fu abbandonato il nomadismo per la vita nei villaggi; parimenti fu quasi abbandonata la caccia, come provano i resti di animali rinvenuti, quasi solo domestici, Compare l’aratro e il carro con le ruote, tirati dai buoi; con l’orzo si prepara una bevanda alcolica corrispondente all’attuale birra, che ha preceduto cronologicamente il vino; si sviluppa il consumo di legumi e si preparano polente e zuppe di vario tipo. Sembra di descrivere la cucina moderna.
Poi l’ulteriore diversificazione alimentare nel Bronzo, favorita dagli scambi commerciali che oltre ai prodotti portarono nuove colture come vari tipi di alberi da frutta prima sconosciuti.
L’Età del Ferro vede nascere la coltura della vite e poi la produzione di vino, quindi quella dell’olivo importato dall’Oriente anche qui seguita dalla produzione di olio, entrambe riservate alle classi più elevate. Seguirà l’estrazione di olio anche da mandorle e noci; e dal lino dell’Oriente per la tessitura, dal ricino dell’Egitto e dal sesamo della Mesopotamia; anche i preistorici usavano dunque l’olio di ricino, non certo, si spera, come nel ventennio fascista. A parte le battute, l’inventiva e la maggiore conoscenza porta a produrre infusi di foglie e frutti con la predisposizione dei recipienti adatti, si arriva già in quest’epoca perfino ai dolci, ricavati dal miele e da particolari frutti secchi.
Il ritmo del progresso si fa sempre più incalzante, lo vediamo attraverso l’alimentazione che è il terminale di un insieme di attività legate alla tecnologia e alla conoscenza. Gli utensili vengono continuamente perfezionati e realizzati nei metalli ben più efficaci di ossi e selci; vediamo come opera l’inventiva con gli ami per i polpi. Dall’Asia e dalla Grecia arriva il pollame, che viene allevato anche in Sicilia, come mandorli, noci e noccioli poi diffusi in tutta l’isola. Gli orci e le giare in ceramica si rivelano ideali per la conservazione dei cibi, ottenuta pure essiccandoli e salandoli: questo consente di mantenere provviste anche di carne e pesce. I liquidi vengono conservati in recipienti capaci dove si attinge con tazze provviste di manici: nella nostra infanzia in Abruzzo ricordiamo la “maniera” quadrata e il più piccolo “scommarello” rotondeggiante.
Ormai gli scambi commerciali mettono in contatto con altre usanze ed altri tipi di alimentazione e di preparazione dei cibi, si creano ricette che elaborano e mescolano gli ingredienti. “Ma è soprattutto dall’epoca romana – conclude la Schimmenti il suo excursus preistorico – che il cibo da semplice fonte di sussistenza divenne occasione per banchetti e convivi, si mangia più per soddisfare il gusto e la gola e non per il semplice fabbisogno. E così il necessario diventa superfluo”.
Fonte Archeorivista
Tutte le immagini, con le didascalie, sono tratte dal citato “Le storie della preistoria al museo Salinas”, Regione Siciliana, Assessorato dei Beni Culturali e dell’identità Siciliana, dipartimento omonimo. La pubblicazione è a cura del Museo Archeologico “Antonio Salinas”, Palermo, direzione e coordinamento generale di Giuseppina Favara; autori dei capitoli contenenti le immagini, a cui si è fatto riferimento anche nel testo, sono Rosaria Di Salvo e Vittoria Schimmenti.