Un post abbastanza breve, oggi. Dove parlerò solo di un libro, Il ciclo di vita degli oggetti software di Ted Chiang (The Lifecycle of Software Objects, 2010), pubblicato in Italia da Delos nel 2011. Un solo libro e un post breve per un buon motivo: oggi all'ora di pranzo ho appuntamento con il fuochista della caldaia della casa in montagna per capire se tutto funziona come deve o se esistono rischi per le tubature che rischiano il congelamento e la rottura. Una missione che ha qualcosa degno di Star Treck - mi consolo così -, perlomeno degno di Montgomery Scott, ingegnere della prima Enterprise. Ne approfitto per fermarmi un paio di giorni in mezzo alla neve e comunicare a tutti che non esisterò o quasi fino a lunedì. Ma torniamo a noi. Ted Chiang ha pubblicato tredici racconti e un romanzo breve in tutto e ha vinto quattro volte il premio Hugo, cinque volte il premio Nebula, tre volte il premio Locus oltre a vari altri premi e riconoscimenti. Di lui non ho molto da aggiungere a ciò che scrissi a suo tempo nella recensione alla sua antologia italiana, Storie della tua vita, pubblicata su LN-LibriNuovi: un autore fuori dalle regole del genere e capace di porre in maniera inattesa e straniante le domande fondamentali della nostra esistenza: «Chi sono?», «Perché proprio io, qui?», «Esiste Dio? Qual è il mio rapporto con lui?», «Che cosa rende unica la mia esistenza?».
Il romanzo breve - Il ciclo di vita degli oggetti software - ha lasciato non pochi lettori perplessi. Qualcuno ha dichiarato che il premio Hugo è stato in questo caso, dato più alla carriera che la romanzo in sé, giudicato inferiore alla media dei testi di Chiang. Così l'ho acquistato in forma di e-book e ho iniziato a leggerlo con una certa perplessità e l'ho letto lentamente, al contrario delle mie abitudini, centellinandolo e ragionando su ogni passaggio del testo. Raccontarlo in breve è insieme facile e difficile: in pochi casi, infatti, mi è capitato con maggiore evidenza di notare la verità del detto «Dio dimora nei particolari». E scusate il gioco di parole. I clienti di una ditta software acquistano alcuni oggetti software, tamagotchi che crescono e maturano in un ambiente virtuale, e creano legami tra loro in quanto «genitori» di tali creature. Ma col tempo tali creature passano fatalmente di moda, la ditta software fallisce, i tamagotchi - i "digienti" del libro - si trovano a vivere in un universo virtuale sempre più vuoto e spoglio mentre i pochi "genitori" si affannano a cercare per loro nuovi sbocchi e nuove possibilità. Fatalmente sia gli umani che i digienti si troveranno a scontrarsi con la logica delle major informatiche per le quali sono ammissibili soltanto prodotti e non creature intelligenti:
...cerchiamo prodotti super-intelligenti. Lei ci sta offrendo i primi e non posso biasimarla. Nessuno può spendere anni ad addestrare un digiente, come ha fatto lei, e considerarlo ancora un prodotto. Ma il nostro business non è basato su questo genere di sentimenti.
La logica del mercato in apparenza sconfigge senza appello la curiosa, insana passione di alcuni umani che si sono dedicati a far maturare e rendere più umani semplici costrutti virtuali. Coloro che non hanno capito, o non hanno voluto capire, che le imprese hanno altri scopi, altri progetti, una diversa visione della realtà. Il romanzo ha un finale interlocutorio, che lascia una porta aperta al mondo dei digienti e a quello dei loro umani, anche se potrebbe trattarsi soltanto di una breve, curiosa parentesi in un mondo senza speranza.
Ted Chiang
L'approccio di Chiang non è amichevole né gradevole, i suoi umani, i "genitori" dei digienti, sono persone comuni, nerds fissati con i loro bambini virtuali che sembrano non capire come va davvero il mondo. Il racconto è freddo, non ammette solidarietà né simpatia nemmeno per i digienti, presentati all'inizio come creature forzatamente infantili, elementari nei loro gusti e nelle loro passioni per poi mutare inavvertibilmente fino a divenire creature sottilmente inquietanti. Il lettore in più occasioni si chiede perché continuare a leggere una storia tanto volutamente remota e improbabile, oltre tutto scritta in maniera così evidentemente gelida. Me lo sono chiesto anch'io, ovviamente, ma ho continuato e ho finito il romanzo, più o meno 100 pagine. Adesso, a distanza di un paio di mesi, posso affermare che sono - uno - soddisfatto di averlo letto e - due - che sono pienamente convinto che il premio Hugo sia stato abbondantemente meritato. Passione per Chiang? È possibile, non lo nego. Esiste un piacere particolare nel leggere un libro di questo genere, un piacere che evoca l'immagine di arrampicarsi su una parete liscia e fredda, un esercizio che non lascia al lettore margini per sentirsi vicino o simile all'autore: un'immagine lontana, separata, indifferente. Ted Chiang non ha mai cercato né la simpatia né la complicità dei lettori. In questo romanzo anche meno del solito. Non ve ne consiglio caldamente la lettura: esistono momenti giusti e altri del tutto inadatti. Ma se ve la sentite vi suggerisco di farlo: vedere il mondo con gli occhi di un oggetto software è un'esperienza difficile ma unica.