Molto spesso le apparenze ingannano, specie se sono così vistose e pervasive da imporsi alla mente e scacciare caratteristiche meno visibili o successivi cambiamenti di prospettiva. Così, ad esempio, Obama viene considerato il primo presidente nero degli Usa, mentre la sua caratteristica peculiare è quella di essere l’ultimo presidente, almeno nel senso in cui siamo abituati a considerare l’inquilino della Casa Bianca. Non c’è dubbio che il suo “colore”, unito all’insorgenza della crisi economica, abbia favorito per qualche anno il permanere di un concetto di presidenza già gravemente in crisi e sulla via di venire totalmente assorbito dentro logiche dinastiche e lobbistiche: non bisogna essere indovini per preconizzare che egli sia stato l’ultimo ad avere coagulato su di sé entrambe le caratteristiche della democrazia: un voto popolare relativamente spontaneo e massicci contributi della base per la campagna elettorale.
Poco importa che la sua azione sia stata timida, contraddittoria, inefficace, talvolta disastrosa e quasi sempre condizionata dai poteri economici: dopo di lui il diluvio. E lo si vede bene dai personaggi scesi in campo per succedergli: la dinastia Clinton, con l’alleanza ribadita alcuni giorni fa con il complesso militar industriale, contro quella Bush o la comparsa di corsari della finanza e degli affari che come generali dell’impero romano o cinese muovono le loro truppe di carta moneta con buone speranze di successo come Trump. Del resto già negli ultimi anni è apparso chiaro che l’amministrazione di Washington sia segnata dalla lotta fra più centrali di interessi e come il mondo dei ricchi (Soros valga per tutti) stia man mano imponendo non solo la propria idea medioevale di società, ma anche le proprie strategie geopolitiche.
Il Paese è profondamente spaccato tra vari sogni e incubi incastonati in una crisi endemica che solo la manipolazione dei dati riesce a far sembrare ripresa tanto che nelle file dei repubblicani vi sono ben due candidati di peso di origine latina destinati a rassicurare con il loro solo nome minoranze che ormai si avviano a diventare maggioranza, mentre Trump si appoggia alla delusione dei ceti medi bianchi di fatto derubati dai Trump. L’offerta democratica, Sanders a parte, rimane invece poco definita e in qualche modo prigioniera degli errori di Obama più che della sua capacità di raccogliere consenso. Chiunque alla fine risulti vincitore non solo si ritroverà subalterno al potere economico mediatico che ne determinerà l’ascesa, dentro un amministrazione slegata e divisa in vari potentati che rendono ardua qualsiasi mossa e prigioniero se non adepto del pensiero unico, ma confinato strettamente dentro un segmento di opinione molto più esiguo rispetto al passato. Perciò qualsiasi possa essere il futuro inquilino della Casa Bianca non potrà che rivolgersi agli dei della guerra, vestirsi dei panni di comandante supremo per compattare attorno a sé l’opinione pubblica. La cosa è talmente scontata che il Pentagono sta preparando i piani per il dopo Obama e nemmeno tanto in segreto, visto che le notizie più corpose vengono diffuse pubblicamente ben sapendo che nessun presidente avrà la forza di respingere l’offerta di avventure in medio oriente, nel Baltico, in Europa e magari nel mar cinese, tanto più nell’impossibilità ideologica e pratica di attenuare in qualche modo la crisi sociale in atto anche se nascosta sotto il tappeto. E nella consapevolezza di un un inevitabile declino rispetto al trono di unica superpotenza egemone. Tanto vale cominciare da subito a conferire i nobel per la guerra.