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Presa Visione: Stalker di Antonio Limoncelli

Creato il 14 luglio 2012 da Wsf

Presa Visione: Stalker di Antonio Limoncelli

di Andrej Tarkovskij, 1971

L’accesso al proibito, là dove si sprigiona la magia, la possibilità d’incontrare l’oltre, la potenza dell’ignoto che si svela. Nelle pianure incolte dell’URSS, i residui industriali di un’architettura decadente, meccanica, a suggello dello snodo esistenziale che separa il passato, certezza ineluttabile, dal presente, carico d’interrogativi e senza risposte.
L’assenza di certezze scava abissi e la vertigine apre scenari indefiniti, squarci nell’intento minimo che interferisce con l’assurdo.
E allora, diviene assoluto il bisogno d’indagare, di capire se è ancora possibile non rassegnarsi alla vita ordinaria dell’infelicità e del compromesso, se è ancora possibile perseguire il chiarimento, il volere fino alla verità.
E dall’opercolo apicale fuoriesce la materia grigia, la follia organica dell’eccedenza, il desiderio incontenibile di attraversare il limite.
E se oltre il filo spinato pulsa l’incredibile, nessuna forza può ostacolare l’irruenza cognitiva. Il sistema incita, costantemente, alla sentenza morale, alla necessità del riferimento patologico, alla diversità come malattia e la polizia regola le azioni, insinua il dubbio nel dubbio, ambiguità necessaria alla certezza. E la realtà si svilisce nel quotidiano, nell’affaccendarsi esistenziale, in un divenire sempre più inerente all’universo politico.
Ma questa volta l’inspiegabile, recluso dal silenzio di chi gestisce il tutto, trapela in maniera geometrica e attira, magnetico; non si riesce a frenare l’impeto della folla di idee che si libera dalle ideologie processando la funzione animale, il carico di azioni istintive. L’uomo vuole la ragione dell’esistenza, apprendere dall’impossibile la possibilità di superarsi.
E’ stata una meteora? un’astronave? Vi è una stanza dei desideri? E’ la domanda che muove l’essere alla risposta.

Lo stalker è un cercatore di piste, un uomo coraggioso che non si muove per le risposte. Uno scrittore ed uno scienziato vogliono sapere, invece, capire, ma non sanno come evitare il pericolo che serba il gorgo dell’incoerenza, non sanno come attraversare lo spazio che li separa dalla Zona, dalla stanza dove pare si realizzino le proprie aspirazioni.
E lo stalker, sa avvicinarsi con circospezione. Il suo mestiere è quello di condurre alla tentazione senza farsi tentare per non smarrirsi.
Eccoli dentro una tundra acquitrinosa inseguire la meta e inseguirsi, mentre il paesaggio cangiante altera le prospettive, li confonde fino al vizio ciclico dell’espediente endogeno. E la ricerca si fa interiore, timida e virulenta nella sua blandizie antropologica. Lo scrittore destruttura e il fisico razionalizza la distruzione. L’intellettualismo esaspera fino alla teoria endemico della retorica, dell’esigenza sempre più evidente di rinunciare alla risposta. E’ la domanda che  rasenta il limite la speranza che cambi qualcosa.
E quando raggiungono la vecchia stanza scrostata,  aperta al respiro e alla pioggia, quando chi cerca deve chiedersi le ragioni del tutto e valutarne gli effetti, muore la causa che li ha spinti oltre forse perchè i desideri più profondi sono inutili e ingiusti come la ragione stessa del desiderio.
Il pericolo che deriva dalla scelta, il potere di decidere fino al dominio, rende il futuro senza speranza, la vita il dramma della morte certa. L’idea di acquisire qualcosa che l’inconscio possa decidere per noi potrebbe scuotere l’universo dell’io, la stessa via che ha permesso all’essere di giungere all’avere, alla povertà del possesso.
Ed io mi chiedo… Cosa avrei fatto? Io, scrittore e scienziato, doppio nella funzione, unico nell’essere io, identità numerata e definitiva. Cosa avrei fatto? Mi sarei comportato come trent’anni fa, quando l’ignoto mi risveglio dal quotidiano e mi offrì la totalità in cambio della purezza? Adesso avrei scelto di contaminarmi? No.
E lo scrittore e lo scienziato non entrano nella stanza e non chiedono nulla. Resta loro il viaggio verso la speranza, l’idea della vita che si sviluppa semplicemente. E ritornano stanchi, provati dalla consapevolezza che il destino dell’uomo non è la verità e che non è in suo potere la scelta. L’inconscio non si può controllare. Non sapremo mai cosa stiamo cercando, cosa vogliamo davvero.
E lo stalker sa già che non bisogna chiedere perchè il porcospino aveva ottenuto tutto e poi si era impiccato, il maestro si era ucciso e il fratello del maestro era morto in un incidente lungo il percorso.
Lo stalker è turbato dalla mancanza di fede che alberga in tutti gli uomini. Dove si è smarrita la speranza?
E la figlia irradiata dalla Zona, nella sua stasi patologica, ha sviluppato capacità telecinetiche. La speranza non si è smarrita. E’ stata la purezza d’un transito senza la ragione d’una meta? Lo sferragliare del treno sui binari ci riporta all’inizio, alla regressione iniziatica, al viaggio d’andata e ritorno.

Impressioni d’un mio ritorno al film

Controluce morbido, spiragli ossessivi, ombre slungate e sottili, adiacenze furtive, commisurate e silenti, operose. Tutto ruota al contrario e il nesso si divincola dalla logica liberando il gesto sproporzionato.
Nessuno può ancorarsi all’abisso senza perdersi profondamente. Tutto è pronto a precipitarsi nel nulla e scivolare all’infinito, finitamente duttile, inespressivo, virulento. L’io di chi ha deciso d’inseguire l’oltre emerge dall’identità eroico.
Lei non può trattenere il fiume turbolento dell’inquietudine, il vorticare inesatto del flusso che il dubbio alimenta. Lei non può afferrare l’impressione che l’astrazione lascia nella mente dell’uomo.
E il marchio di Caino, indelebile, trascina l’eterno alla dissoluzione temporale, alla ricerca di attimi irripetibili, esistenze infinitesime acicliche.
Il ritmo è scandito dal treno, idea in transito, eccessiva e rumorosa. Il piano si inclina per lasciare scorgere l’orizzonte dei personaggi, i loro desideri, la paura, i sogni.
Lei non può fermare il bisogno incontenibile, l’urgenza di decidere subito cosa scegliere, se andare o rimanere.
E lui va via al seguito della legge cosmica, l’espansione fino al rischio estremo,  la lontananza senza possibili ritorni.
L’artista sa che le leggi dell’universo sono rigidamente noiose, si ripetono, dunque, senza sorprese, senza sentire l’esigenza d’un dio. E la Zona, quest’area incredibile che si è aperta all’inesplicabile, potrebbe essere la stessa noia o l’impressione che tutto si è già smarrito nel nulla dei grandi mancamenti, dove lo spazio vuoto continua a rappresentarsi come materia. E la vertigine dell’assenza potrebbe generare l’aspettativa, il desiderio estenuante che mai soddisfa.
E lo scrittore ubriaco continua ad esibirsi, ironia e retorica del disincanto. Egli ostacola l’intento perchè preso dall’io che ne conferma l’identità: lui è scrittore ed ha il dovere di burlarsi della verità; sa che può argomentare solo e soltanto la menzogna.
E lo scienziato?
Lui è di poche parole, quelle essenziali. Si riserva al pensare, all’idea come strumento, al bisogno di verità.
E lo scrittore?
Torna argomentando la ricerca vana dell’assoluto perchè il divenire trasforma ogni cosa e la meta cambia continuamente e chi crede di poterla afferrare si ritrova tra le mani una menzogna ulteriore. Lo scienziato cerca per professione e lo scrittore per mendicare l’ispirazione.
E lo stalker?
Lui cerca qualcosa?
Insegue soltanto il rischio, vuole sentire il cuore palpitare ad ogni passo, vuole saperlo fermare. La sua attenzione rivela i particolari necessari ricollocando ogni parte nella posizione più aderente all’intento. E tutto diviene possibile.
Una pausa nel riflesso, indefinito e vago, della luce accidentale che spezza le ombre di metallo e le membra di cemento.
E lo scrittore trama ancora, ordito folle nella tensione del reato, esplica il tormento che ne divora gl’intendimenti; si dichiara colpevole di non cercare l’aspirazione come aveva lasciato intendere.
E se la Zona fosse  il luogo originario, l’inizio del viaggio verso la regressione?
Un labirinto di percorsi emerge dal baratro, vascello di pertinenze e congruenze programmate dal caso: la verità è il caos. Nessuno sa dove arriva la verticale e perchè l’orizzonte limiti la visuale alla variante prospettica.
La finestra sulla palude illude e si ritorce fino al riflesso contratto d’una speculazione troppo razionale, utile all’inerenza concettuale più prossima alla forma. E la visione nuota, algale, striscia sulla linea inumana, ripetizione d’impressioni eccedenti.
La volontà di perseguire l’intento produce il ritorno, il bisogno di riscoprirsi vivi nello stesso luogo che si ripropone, inerzia d’immagini condivise, àncore aliene che incatenano al mistero.
Nell’abisso psicologico della coerenza strutturale, nell’ambiguità marcata d’uno schizofrenico, maestro e discepolo allo stesso tempo, prototipo di un’ispirazione rabberciata che condivide il tormento e la gioia del dolore, che ritengo sia la maledizione della verità. E la riluttanza a sostenere questo ruolo doppio, questa paura d’essere l’uno e l’altro perchè l’obiettivo è identico, la meta univoca.
Agitarsi tra i fantasmi sfuocati nel dubbio che la nebbia sia il fiume lattescente d’una fiamma gelida.
Rotaie d’acciaio per treni di cartone, i passeggeri, disegnati sulle pareti dei vagoni, raccontano il viaggio.
E la tecnologia utile alla pigrizia, protesi ispessita dall’esigenza, programma l’artificio ideale.
Il sole si oscura per esaltare l’ombra poi risplende nuovamente e la trasparenza ricama un residuo già estinto mentre l’arte del riflesso ha senso solo se il significato delle cose riemerge dal caos che il caso ha generato come ordine.
E se la stessa verità dipendesse dalle circostanze, ideale univoco nella variante che anima il divenire?
Siamo in prossimità della Stanza, corridoio d’ansie, ragnatele di ghiaccio. Il passo rimbomba nel cervello, metallico e vuoto. Ecco una porta!
Dentro la palude. Ancora più dentro le dune in attesa del vento.
L’assoluto si dibatte, eco d’esperimenti e fatti, verità in ultima istanza. Tutto è invenzione!
Il sistema si nutre di menti, divora i cambiamenti affinchè tutto coesista, perchè presente e futuro si sovrappongano, si confondano.
L’intenzione è quella di perdere l’identità e con essa la paura di smarrirsi, l’angoscia di ritrovarsi già vecchi senza capire il perchè.
Cosa mi capiterà?
L’arte del prodigio riannoderà i percorsi fino alla soglia ed io riuscirò ad inoltrarmi fino alla verità?

Antonio Limoncelli


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