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Presagi dall’Asia

Creato il 23 giugno 2014 da Conflittiestrategie

 

[Traduzione di Redazione da: Asian Omens | Stratfor]

La geopolitica dell’Asia orientale sta attraversando una fase di movimenti tettonici. Giovedì è avvenuta una sequenza di incidenti che hanno richiamato l’attenzione sulle dinamiche strategiche e di difesa sempre più incerte e in rapido mutamento, in una regione che fino a tempi recenti era nota solo per il suo boom economico. L’ennesimo attentato terrorista uiguro in Cina, uno scontro a fuoco tra le due Coree lungo i loro confini marittimi contesi, e per finire, un colpo di stato in Thailandia hanno contribuito a riportare in primo piano questi conflitti regionali di lunga data. Questi incidenti avvengono poco dopo un’importante sessione strategica russo-cinese e lo scontro marittimo in corso tra Cina e Vietnam. Nonostante le cause e i contesti molto diversi, ciascuno di questi eventi è la tessera del rompicapo molto più grande sul futuro della regione più popolosa e ricca del mondo.

Per il resto del mondo, ciò che più sorprende riguardo l’Asia orientale è il fatto che i conflitti eruttino improvvisamente dal nulla e quindi scemino come se nulla fosse accaduto. Lo scambio di colpi d’artiglieria lungo la porzione marittima della Zona Demilitarizzata Coreana, dove il Nord contesta l’accesso ristretto al Mar Giallo e le due parti bisticciano sui diritti di pesca e di sovranità, è un fatto piuttosto ordinario. Ma non va sottovalutato; gli ultimi scambi avvennero presso l’isola Yeonpyeong, dove il bombardamento nord coreano causò delle vittime civili nel 2010, dopo che nella zona antistante la corvetta Chon An fu affondata con un attacco a sorpresa.

Nel frattempo, i recenti attacchi dei militanti uiguri in Cina, compresi gli attacchi esplosivi di giovedì a Urumqi, il capoluogo della provincia dello Xinjiang, sottolineano i crescenti problemi di sicurezza di Pechino, mentre questa cerca di accelerare lo sviluppo economico in una regione di minoranze etniche, dove i militanti separatisti e islamisti intessono legami con i jihadisti dell’Asia centrale e meridionale. Il problema non è tanto che la pericolosità degli attacchi sia aumentata – Pechino ha già affrontato simili picchi di attività dei militanti uiguri nei decenni precedenti – quanto i cambiamenti nelle reti internazionali che hanno permesso agli uiguri di condurre attacchi con metodi nuovi e sorprendenti e, nel caso di Kunming a marzo, al di fuori del proprio territorio d’origine.

I colpi di stato sono un tema ricorrente in Thailandia, un modo illegale ma culturalmente accettabile di imporre la stabilità quando le lotte regionali per il controllo su un governo fortemente centralizzato rischiano di bloccare la vita quotidiana e gli affari. All’inizio, l’intervento dei militari all’inizio di questa settimana è stato accolto con sollievo da molti Tailandesi, stanchi dopo sei mesi di proteste e impasse del governo. Ma questo golpe, come quello del 2006, non farà che rimarcare le divisioni esistenti, anche se l’esercito riuscisse a mediare una tregua temporanea. Inoltre, i partner economici della Thailandia cominciano ad essere preoccupati che questo aspetto teatrale dell’instabilità Tailandese finisca col diventare pericoloso, con le varie fazioni politiche che vedono la possibilità del secolo di radicare il proprio potere istituzionale nel corso della prossima successione al trono e della transizione socio-economica in corso.

La geopolitica ci insegna a fare un passo indietro di fronte a questi conflitti localizzati per valutare i fattori sottostanti le divisioni all’interno delle nazioni. Non si può mai rimarcare abbastanza l’importanza dei movimenti profondi che hanno luogo. Al centro di tutto sta la Cina, il gigante della regione. Alla fine anche la Cina sta andando incontro alle tensioni socio-economiche che hanno interessato tutti i miracoli economici dell’Asia orientale al culmine del loro picco di esportazioni e investimenti, anche se la Cina sta cercando di usare la ricchezza e la potenza navale recentemente acquisite per ritagliarsi una nicchia più larga in un mare affollato di paesi concorrenti e a lungo dominato dalle flotte straniere. L’ascesa della Cina a grande potenza ha innescato la risposta del Giappone, che dopo anni di indecisione, è uscito decisamente dall’isolazionismo per sfidare lo status quo. Con Tokyo che cerca di consolidare la propria posizione privilegiata accrescendo la propria potenza militare e cercando un’alleanza più stretta con gli Stati Uniti e i paesi vicini, la Cina accelera le proprie mosse, temendo che il suo momento di coesione e forza possa essere sabotato dalle stesse potenze ostili che seminarono il caos al suo interno nei due secoli precedenti.

Nel frattempo, la Russia sta passando dalla rinascita nella sua periferia occidentale al rilancio dei suoi legami con le potenze del Pacifico. Mosca intende stabilizzare e diversificare la propria economia, e in ultima istanza ammodernarla mediante l’aumento delle esportazioni energetiche e un maggiore accesso ai ricchi investitori asiatici. Sebbene sotto questo aspetto il Presidente Vladimir Putin debba prima consultare il Presidente Cinese Xi Jinping in qualità di partner principale, la sua strategia è neutrale. Putin ha ricercato migliori rapporti economici con il Giappone, che resta un importante acquirente e una barriera necessaria per contenere la Cina, ed ha allo stesso tempo cancellato i debiti e aumentato le connessioni con la Corea del Nord, alla ricerca di un maggior contatto con l’intera penisola. La Russia cerca anche di piazzare sistemi d’arma, energia e varie joint ventures industriali in Vietnam, Indonesia e altrove.

Anche gli Stati Uniti – da sempre una potenza sul Pacifico – stanno concentrando la loro attenzione nella regione, nel tentativo di rivitalizzare la loro innata forza nel commercio, negli investimenti e nei rapporti di sicurezza che potrebbero essere necessari per negoziare il futuro ordine internazionale con la Cina.

Non dobbiamo essere sorpresi, allora, dal fatto che negli spazi tra queste potenze in ascesa sorgano crescenti attriti. Ciascuna di queste potenze aspira ad impedire alle altre di dominare le vitali vie di comunicazione marittime e aeree, così come gli spazi strategici quali la Penisola Coreana e l’Asia sud-orientale. Le spese militari e i processi di ammodernamento impennano mentre vari territori sono contesi. Tutte queste potenze sperano anche di consolidare una posizione di vantaggio nell’esplosiva economia dell’Asia.

Il multipolarismo e l’assenza di regole di concorrenza universalmente riconosciute hanno spinto le potenze dell’Asia orientale a parlare della costruzione di un nuovo quadro di riferimento per promuovere la stabilità. Questo quadro potrebbe assumere i connotati della comprensiva nozione cinese di “Sicurezza Asiatica”, o dell’iniziativa giapponese per unire l’Asia sud-orientale e legarla all’alleanza USA, o del pivot americano nella regione o ancora di iniziative multilaterali di minor portata, come un Codice di Condotta per il Mar Cinese Meridionale o un patto commerciale regionale. Tuttavia gli interessi nazionali in conflitto impediscono a queste iniziative di diventare vincolanti, come sarebbe necessario per ottenere la stabilità. I risultati sono mancanza di chiarezza e maggiore insicurezza.

Il pericolo dell’incredibile dinamismo della regione risiede nelle differenze in come ciascuna delle potenze, grande o piccola, valuta le capacità dei propri avversari. A causa della reciproca sfiducia, c’è bisogno di valutare le reali capacità dell’avversario, piuttosto che i suoi obbiettivi. Tali giudizi vanno incontro a facili errori laddove tutte le potenze cercano contemporaneamente di amplificare l’immagine della propria forza al fine di scoraggiare le aggressioni. L’insicurezza interna di Pechino arriva in contemporanea con i suoi timori di venire contenuta dalle potenze del Pacifico, e una perdita di stabilità interna potrebbe causare azioni più aggressive all’esterno per migliorare la propria posizione nei mari circostanti, fintanto che ne ha la possibilità e i suoi rivali sono disorganizzati. Il conflitto coreano perdura in un simile stato di incertezza e in un panorama della sicurezza in rapido cambiamento. Un numero crescente di stati asiatici – non solo la Thailandia, ma anche la Malesia, l’Indonesia e le Filippine – sono interessati da crescenti divisioni interne sulla prossima fase di sviluppo socio-economico, una tendenza che frustra le speranze americane e giapponesi per un gruppo coeso di stati del sud-est asiatico che possa coadiuvare il contenimento della Cina.

 


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