Lo descrive così Davide Orecchio, autore di Città distrutte (Gaffi) in occasione della presentazione che si è svolta il 21 novembre alla Feltrinelli International di Roma, insieme allo scrittore tedesco Jan Peter Bremer e al suo traduttore ed editore Marco Federici Solari (L’orma)
Jan Peter Bremer, nato ad Amburgo nel 1965, appare rilassato, con una capigliatura afro, orecchini e anelli. Ha all’attivo sette romanzi e ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti, tra i quali l’Ingeborg Bachman Preis nel 1996 e il Premio Döblin nel 2011. Vive a Berlino, in un appartamento di Kreuzberg di cui tanto si parla in questo libro.
L’investitore americano è il suo primo romanzo tradotto in Italia grazie a Marco Federici Solari. Abbiamo così avuto l’opportunità di conoscere un nuovo autore tedesco e scoprire, come ha scritto Davide Orecchio di recente, «che, se per gli italiani la crisi l’hanno forse causata (e peggiorata) i tedeschi, per uno scrittore tedesco, invece, il colpevole è un milionario senza volto allo stato liquido e gassoso che si aggira sul proprio jet per i cieli del mondo. Un milionario senza terra la cui felicità non dipende dalla felicità degli altri, ma dal mangiare cioccolata in solitudine nell’alto dei cieli».
Il milionario del libro, l’investitore americano che ha acquistato il palazzo dove vive lo scrittore, esiste veramente, è Nicolas Berggruen, figlio del collezionista e fondatore del Museo Berggruen di Berlino. Una storia autobiografica quella che Bremer ha deciso di raccontare, trasformandola in una pregevole opera letteraria sull’impotenza e l’impossibilità di reagire ma anche sulla straordinaria forza della fantasia e dell’immaginazione, sul potere della creatività.
«La notte prima il litigio era stato violento e la mattina era rimasto a letto come anestetizzato. Non aveva sentito neppure i passi pesanti della moglie che usciva di casa. Probabilmente lo stremava l’afa che durava da settimane. O era stata quella lite a provarlo più di quanto non credesse?
Guardò la parete bianca dietro al tavolo. Il diverbio non era stato poi così pesante e in nessun caso quello scontro gli avrebbe impedito di raccogliere le forze e gettarsi a testa bassa nel lavoro.
Annuì e chiuse gli occhi. Col capo risolutamente proteso in avanti, i piedi abbronzati quasi icnollati alla tavola, quel giorno avrebbe cavalcato con la penna per le pagine del suo taccuino, facendo surf con azzurri occhi d’acciaio in un vorticare continuo tra cielo e mare.
Abbassò lo sguardo sul taccuino. Ma quel giorno sarebbe stato diverso. Quel giorno gli era già rimbalzata per la testa una frase che doveva assolytamente annotare. Una frase chiara che gli aveva lasciato un’impressione profonda. Ma cosa gli stava ribollendo dentro, quando l’aveva pensata? E dove era finita ora quella frase? L’aveva composta lui, con le proprie forze, o l’aveva colta dalla bocca di un altro?»
Protagonista del romanzo di Bremer è uno scrittore in crisi creativa e matrimoniale. Uno sconosicuto e misterioso investitore, un magnate americano che vive su un jet privato, sempre in viaggio, ha comprato l’intero complesso edilizio dove vive lo scrittore insieme alla moglie, due figli e il cane, e li vuole convincere a traslocare. Lo scrittore decide di scrivere una lettera all’investitore americano, ma non riesce a trovare un incipit e mentre cerca invano una chiave di scrittura la sua mente diventa uno strordinario laboratorio della fantasia.
«Guardò la lampadina. Da dove traeva la sua forza distruttrice l’investitore americano? Il suo ingresso nelle loro vite aveva provocato solo sventure. Quell’uomo incombeva sulle loro teste come un destino, un mostro che succhiava gioia ed energia da ogni giorno, da ogni ora. Ma chi era? E cosa faceva lassù? passava il tempo a godersi il suo potere, guardando la terra dai suoi oblò, oppure il suo aereo era un luogo di orrori, spaventoso al di là di ogni immaginazione, con donne e bambini che giacevano piangenti, nudi e incatenati, disponibili a goni abuso in quella carlinga fredda e buia? E lui cosa avrebbe potuto scrivere a un uomo del genere, un uomo che guardava giù dalle finestre tonde del suo velivolo solo per bearsi della visione dei suoi affittuari che, derubati della loro felicità, si dimenavano in aria in caduta libera dopo il crollo di un pavimento?».
La scrittura di Bremer è lieve e particolare. Orecchio ne ha messo in evidenza le soluzioni stilistiche originali come quella di iniziare ogni capoverso con un gesto, un movimento del corpo, «tirò fuori la mano dalla tasca dei pantaloni», «spostò il proprio peso da un piede all’altro», «aprì gli occhi e guardò il soffitto», «si girò con un balzo e battè le mani». Bremer ha spiegato che la gestualità in questo libro ha una funzione precisa, è un principio ordinativo come anche quello di chiudere moltissime frasi con una domanda.
«Si voltò verso la scrivania, afferrò la penna e scrisse piegato sul taccuino: La notte prima avevo litigato con mia moglie. Fissò a lungo quelle parole. Poi guardò di nuovo fuori dalla finestra. Era un uomo come tanti, e quanto fu esaltante, in quel momento, sentirsi proprio come l’uomo comune. Quante storie si potevano creare a partire da quella frase?
Si guardò le mani e all’improvviso sentì un sorriso aprirglisi sul volto. Era un uomo qualunque, sì, ma non era incredibile che proprio per questo fosse anche un uomo davvero rappresentativo, un uomo come tutti? Due figli, una moglie, molte felicità piccole, poca felicità vera e propria, una taglia di vestiti per cui a volte non trovava capi che gli stessero perchè troppi prima di lui l’avevano richiesta. Non poteva bastare anche solo questa straordinaria medietà a dare validità al suo libro?»
L’investitore americano – Jan Peter Bremer
Traduzione dal tedesco di Marco Federici Solari
L’orma, 2013 (Kreuzville)
pp. 137, € 15,00