9 ottobre 2012: a Milano i colori del cielo autunnale non hanno soluzione di continuità con la città. Piazza Piemonte governa le sue contraddizioni attraverso il “Parco delle arti”, che cerca di contrastare l’ecomostro della pensilina. Le tre sculture di Aligi Sassu sono obelischi davanti al Nazionale e recitano il grezzo dramma de “Il dio Pan è morto”, la tensione plastica e rampante de “Il cavallo di Maia”, l’imponenza erculea de “Il grande ciclista”.
Ma non è per questo che mi trovo lì.
Alla Feltrinelli di piazza Piemonte si svolge la presentazione dell’ultimo romanzo di Gaetano Cappelli. Il titolo è niagarico (un piccolo racconto esso stesso, dirà l’autore): “Romanzo irresistibile della mia vita raccontata fin quasi negli ultimi e più straordinari sviluppi”.
E proprio dalle dimensioni del titolo comincia il critico Antonio D’Orrico, provocando lo scrittore e forse già conoscendo la sua risposta. “Ti ispiri ai titoli dei film della Wertmuller?” Cappelli smentisce, accreditando il titolo con i romanzi inglesi dell’ottocento.
L’incipit della presentazione che si svolgerà in modo dialettico tra D’Orrico e l’autore lucano di “Parenti lontani”, “Storia controversa dell’inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo”,“La vedova, il santo e il segreto del pacchero estremo”, “Baci a colazione” è … un incipit!
Gaetano Cappelli ha scritto infatti per “Incipit” di Panorama (la rubrica nella quale scrittori famosi propongono una storia breve a partire da una notizia di cronaca) il racconto intitolato “No, il sadomaso no”, che trae spunto dalla notizia del successo commerciale di “Cinquanta sfumature di grigio” (‘con quaranta milioni di copie vendute è il libro più venduto di sempre!’). Nel racconto breve, che viene letto integralmente, lo scrittore si immedesima nei mariti delle lettrici della James: l’esito è spassosissimo e suscita l’ilarità del pubblico.
Durante la presentazione D’Orrico ricorda che Cappelli ha avuto il merito di continuare a scrivere romanzi – esplorandone il rapporto con la commedia e la critica sociale – in un’epoca nella quale hanno trionfato il reality, la saggistica e il romanzo che indulge al dolore.
“Spero che quello che produco sia un potenziamento della realtà”, confessa Gaetano Cappelli con un affondo nel romanzo del settecento e qualche critica alla letteratura noir contemporanea.
La discussione si trasferisce poi sul “Romanzo irresistibile…”, del quale D’Orrico esalta la narrazione scenografica. Che passa attraverso la caratterizzazione dei personaggi: su tutti Giacinto, brigadiere e rampollo di ‘grossa e grassa famiglia meridionale’, e il nipote Giulietto Guasto, ragazzo timido con propensione al pianoforte e alla letteratura, del quale lo zio diviene professore di educazione sentimentale.
“Il romanzo si legge per scene”, afferma il critico, che ne seleziona due. La prima è quella di un parentado di ventidue persone che prendono posto su tre auto: una millecento rosso lampone, una seicento verde pistacchio e una ottocento alla crema. E partono per la vacanza a Focene.
La seconda si svolge all’aeroporto Leonardo Da Vinci, con l’apparizione di Elena, ‘una Venere che viene dal cielo’.
La commedia romantico-mitologica, sempre secondo la presentazione di D’Orrico, subisce poi due virate. Giulietto che al pianobar del Palumbo, sulla costiera amalfitana, conosce due fratelli tedeschi, musicisti cosmici con discendenza nazista. Giulietto che all’università, a Roma, entra in contatto con il terrorismo.
Il dibattito prosegue ad illuminare riferimenti (il “Grazie zia” di Samperi), precedenti (in “Parenti lontani”), similitudini (“Il dono” di Humboldt con il personaggio del gangster Rinaldo Cantabile) e ironie (l’apparente causa della morte dello zio Giacinto cela la causa reale …). Senza nascondere che, tra civetterie e sarcasmo, nel romanzo c’è spazio anche per alcuni assalti di malinconia: come nelle pagine in cui Giulio si dispera per la vita che non fatto. O di serietà: come l’idea del ‘gioco del libro che prende vita da solo’. Nella constatazione che l’ironia sulla letteratura del dolore non esclude il dolore della letteratura per l’insufficienza della vita.
Fuori è buio, sul frontone del teatro Nazionale adesso risplende la sagoma del ballerino della “Febbre del sabato sera” in cartello e la silhouette fosforescente con il braccio alzato ricorda stranamente il cowboy al neon di Las Vegas. Percorro via Buonarroti: sui tavolini nei déhors dei café bar brillano i lumini. Note flautate di strumenti a corda si confondono con i rumori del traffico. Io mi lascio inghiottire dalle viscere sferraglianti della metropolitana.
Bruno Elpis