Non considero sempre salutare, personalmente, la cosiddetta, compiuta, “elaborazione del lutto”. Il fatto che, a volte perentoriamente, il congiunto scomparso, continui ad esistere, ad essere “presente” nella realtà quotidiana dell’amato vivente, può rappresentare per me una vera, ulteriore ricchezza, una risorsa vitale inestimabile e liberatoria, non un legame limitante e distruttivo.
Il percepire ancora per mesi, a volte per anni, la sua fisionomia accanto a noi, l’ostinarci, magari nei primi confusi momenti che seguono il risveglio mattutino, a parlargli per condividere il minimo dono di un’emozione, è, accanto al conforto, ricerca di senso.
La presente raccolta di poesie si offre, su questa linea, come testimonianza contenuta, pudica, e tuttavia, forse, proprio per questa sua decisa intenzione, ancor più straziante, di un tenace impegno a voler perpetuare, “custodire” in sé, la presenza a tutto campo, all’estremo grado,dopo la sua prematura scomparsa, di una consorella, oltre che amica-sodale; e lo fa con una valenza tutta limpidamente esistenziale, quasi mai d’impronta astrattamente “metafisica”, bensì quotidiana, concreta e meticolosa fino ad una sua rara mitezza eroica, serena e ostinata, che trova parole sapientissime, con una naturalezza di impeccabile garbo, e esemplare dedizione al “minimo” e al vero. Conservare nel silenzio i segni incancellabili, tangibili e non, di questo passaggio terreno condiviso fino all’unisono, di spazi di sottile e profonda comunicazione, non soltanto e non sempre verbali, come avviene in ogni coabitazione, in ogni convivenza reale e totale di bagaglio di vite, di ogni minima tappa dell’esistere, risulta un’impresa letteraria, per me, riuscitissima, ma che trascende, e di gran lunga, il pur alto valore letterario. Rappresenta, io credo, una sfida dovuta, incoercibile, “perché la morte non abbia più dominio”, e il suo rassegnato, dolente tasso d’oblio si dissolva in grazia di tributo alla vita perduta, interrotta ma non conclusa. E non soltanto “nutrimento e conforto”, dispensa questo stretto legame imperituro, ma una vera “cura” per la propria condizione di esseri corporei, aggrappati a questa assenza viva, vera presenza, costantemente cercata e ritrovata nel proprio travaglio quotidiano, in una condizione di epifanica innocenza, fieramente definita con quella lieve, granitica apposizione, “diversamente vivente”: spavaldo, consapevole eufemismo, che l’anima continua ad affermare e sentire pienamente e profondamente “veritiero”.
Maria Stella Fabbri, in questa sua davvero preziosa, confortante, raccolta, riesce sempre a trovare un assoluto equilibrio, un rigore estremo, una forza sottile, nella verità, talora anche devastante, di una descrittività doverosamente, a volte, non scevra dell’asprezza di riferimenti clinici evocativamente atroci, pur con l’imperativo intimo di un delicato, disteso velo di discrezione. Ed una disarmata, creaturale conflittualità tra il sogno di un impossibile ritorno dell’amica, e l’accettazione dei dolci e benefici balsami, distillati da un’assenza, tanto gravida di intangibili doni, accompagna i ricordi dolenti dell’agonia, trasfigurata, alla fine come una guarigione dell’anima da una crudele fase di sofferenza. “Finché la sosta / dentro il silenzio / scava una sorta / d’indicibile parola / altra / che non è risposta / propriamente. // Ma nemmeno negazione. (dalla superba lirica “Rinvio”).
“Ma non voglio forzare / la porta del mistero: // Mi basta / Quest’indicibile sentore / d’accorciata distanza / fra il mio “qui” / e il tuo “altrove”. (da “Vicinanza”)
Da questo pathos così soavemente trasognato, quasi metapsichico sembra emergere che i termini di perdita e presenza siano suscettibili di passare dalla contrapposizione alla complementarità, sia sul piano del vissuto, sia su quello della cultura, della filosofia e della ricerca del sacro nell’immanente, di quella nostra compenetrata macro e micro-storia, segno del tempo che uccide l’innocenza, ma che può farsi strumento di recupero proprio di quell’innocenza perduta.
E avremo allora una memoria psichica, storico-emotiva, razionale, ed una memoria appercettiva, diacronica , non codificabile dalla contingenza temporale in atto.
Già molti poeti, anche grandissimi, del passato, avevano rivolto la loro poetica verso questo arduo ambito, con differenti modalità, religiose o affettive, allegoriche o intimistiche, passionali o mistiche: John Donne, Emily Dickinson, Foscolo, Pascoli, Marina Cvetaeva, Auden, Caproni. Ma per quanto il tratto di Maria Stella Fabbri, pur così elettivamente lirico, e, seppur sommessamente elegiaco, non abbia nulla di tanto premeditatamente “letterario”, finisce tuttavia col risultare, forse in modo in parte preterintenzionale, sorvegliata, nobilissima letteratura. Ancorché struggente testimonianza personale di una davvero rara lucidità e coerenza esistenziale, chissà quanto potenzialmente paradigmatica di un accoglibile esempio di non rassegnata e quindi fertile accettazione, per le tante dolorose “perdite” del nostro comune percorso umano.
Francesco De Girolamo
Ora penultima
Raggiunta
la soglia
estrema
del dolore
la tua
carne
s’è accorta
che la morte
veniva.
Se n’è
distratta
lo spazio
d’un saluto
e
vi
si
è
arresa.
(24 dicembre 2005)
Diversamente vivente
Vibra nell’aria
che avvolge i luoghi
rimasti vuoti,
un’impalpabile presenza
ed un colloquio
dentro al silenzio delle cose.
La morte
dipana il suo mistero:
e l’anima
ti coglie diversamente vivente.
Trasformazione
Introdotto in casa
dal tuo morire,
il silenzio abita
dove tu abitavi
come un inquilino abusivo.
E mentre ne medito lo sfratto
da te l’invito
di farne un ospite.
Senza eufemismi
Trovato il coraggio
di sostituire l’eufemismo
(morte si chiama la morte)
anche delle cose mi privo
che furono tue…
E spazi si aprono
vuoti
nella casa.
Non risparmia più di tanto
l’éscamotage del sottrarre
agli occhi.
Né cerco consolazione
ma lettura.
E tra dubbio e fede
l’anima filtra
l’inconsutile memoria.
Rinvio
Si apprende dal buio
la nozione della luce,
dalla fatica
quella del riposo…
E così via.
Consolidata scuola
insegna il rinvio
dal meno al più
e viceversa.
Salvo ritrovarsi
d’un tratto
analfabeti,
quando la morte
pone fine all’alternanza.
Finché la sosta
dentro il silenzio
scava una sorta
d’indicibile parola
altra
che non è risposta
propriamente.
Ma nemmeno negazione.
Solo da credere
il rinvio
morte-resurrezione.
A ritroso
Solo passato
e sempre più remoto
il tempo
che fu tuo e nostro.
Nel suo prima
cerco la vita
cui oramai negato
è il dopo.
Per ri-averti accanto,
su orme intatte
procedo a ritroso.
Discreta
e senza pulpiti
la fede
consente all’illusione.
Umanamente.
Immortalità
L’inventiva di ieri
si muta
in tendenza archeologica
e la casa
diventa in gran parte
archivio e museo.
Forse
un’ansia d’eterno
si cela
nell’attenta premura
di rendere tutto
reliquia.
Forse
un cunicolo
lega tra loro
mortale e immortale.
Stando alla fede
“passa
di questo mondo
solo l’aspetto deforme”[1].
E nient’altro.
[1] 1Cor 7, 31.
Non è la morte…
Non è la morte
questione d’un istante.
La morte
è un lungo dopo
d’assenza e di silenzio.
Dislocamento
in incolmabile distanza.
Eppure
non è neanche lei
totale disconnessione.
( 6 dicembre 2006)
Vicinanza
Mi sorprendo
a richiamare
dentro la mia carne
il tuo dolore
come a metter olio
nella lampada
della memoria.
Forse
perché mi manca il rito
del deporre fiori
sulla tua tomba lontana.
Pur essendo certa
o almeno convinta
che solo a me
si dirige quel conforto.
Del tutto umano
e creaturale
e terreno.
Né con esso concorre
in alcun modo
quello che nasce dal pregare.
Anzi: l’uno e l’altro
debitamente
si danno la mano.
Chissà…
forse ti stai chinando tu
sul mio sgomento…
Come, se no,
spiegarmi
l’improvvisa pace
che mi fascia il cuore?
Ma non voglio forzare
la porta del mistero.
Mi basta
quest’indicibile sentore
d’accorciata distanza
fra il mio “qui”
e il tuo “altrove”.
Perdita
Scrutata
giorno dopo giorno
e lungamente pianta,
a fianco mi cammina,
senza compagnia
la tua mancanza.
Non sempre
si fa l’abitudine
al dolore
o svanisce con il tempo
il lutto.
Ci sono vuoti
che nessuno colma.
E solo il cuore
ne conosce il fondo.
La vita stessa che va
e insonne ci attraversa,
devia da questo grumo
come il ruscello
che il masso non scavalca.
Stanza
è la perdita
dentro la casa
e contigua a tutte l’altre,
ma vuota d’ogni arredo.
E acceca,
quando lo raggiunge il sole,
il bianco spoglio
delle sue pareti.
Meglio sostare
presso la sua porta chiusa
e immaginare
un cigolar di serratura…
Oppure credere…
…che prima o poi
si spalancherà.
Maria Stella Fabbri nasce nel1942 a Monticello dell’Amiata (Grosseto), dove vive fino alla prima giovinezza, allorché la scelta di vita religiosa, nella Congregazione Suore Stimmatine,la conduce a Firenze. Qui gli studi e, dopo la laurea in Lettere, l’insegnamento. Più tardi sceglie, insieme ad altre consorelle, una collocazione meno separata o fuori le mura (come viene definita questa modalità di vita religiosa), e si trasferisce in una periferia di Roma, dove tuttora vive e opera accanto agli altri. Ha già pubblicato due raccolte di versi: “Ascoltando il vivere e il morire” (2007) e “Voci dalle circostanze” (2008).