Un silenzio assordante. Scusatemi la figura retorica, ma non mi viene nessun altro incipit efficace, se non questo scontato ossimoro per descrivere il il clima che circonda l'elezione, che avverrà fra dieci giorni, dei nuovi vertici di Cavit.
Il mondo cooperativo vitivinicolo sembra paralizzato dentro un mutismo che rasenta l'omertà. Il consorzione di Ravina è un colosso da 160 milioni di euro e zero indebitamento finanziario. Raggruppa 11 cantine cooperative di primo grado e circa 5 mila soci, che poi sono cinque mila famiglie; quindi occhio e croce incide direttamente sul tenore di vita di 15 mila presone. E tuttavia, non una parola trapela in questi giorni sul futuro della grande corazzata cooperativa. E' come se non esistesse. Qualche indiscrezione, poi ripresa dalla carta stampata, la pubblicammo noi la scorsa settimana. Poi di nuovo il silenzio.
Eppure queste sono settimane intense di trattative e di confronto. Confronti e trattative che coinvolgono due livelli di potere: quello dei presidenti e quello dei direttori. E però il dibattito lì resta confinato, quasi soffocato dentro un cortocircuito democratico: ho paura non lambisca nemmeno lontanamente i cda del primo grado. Figuriamoci i soci, che, sono pronto a scommetterci gli zebedei, per la stragrande maggioranza non sanno nemmeno che a fine mese si deciderà del loro futuro, del loro lavoro, della loro vita.
Del resto le basi sociali cooperative, almeno quelle vitivinicole, sono state ammaestrate al silenzio. Addestrate ad un rapporto societario che assomiglia alla mezzadria. Un infragilimento della soggettività cooperativa che si regge sullo schema collaudato dell'asimmetria informativa: in pochissimi (il management) detengono il controllo delle informazioni e tutti gli altri (i soci e spesso anche gli amministratori) si accontentano delle briciole (informative) in cambio della pagnotta. Probabilmente è questa situazione che oggi impedisce lo svilupparsi di un dibattito aperto e allargato che coinvolga anche la base. E' questa asimmetria, che ha prodotto addomesticamento intellettuale e sociale, che ostacola un reale coinvolgimento del popolo cooperativo. Che pure dovrebbe essere chiamato a decidere responsabilmente e consapevolmente sul cosa fare domani.
Sono almeno tre le questioni forti che stanno dentro l'orizzonte prossimo futuro di Cavit e che pretendono una risposta. Due sono temi di sistema e di modello e uno è soprattutto, e concretamente, di sostanza. E assomiglia ad un'emergenza: la questione La Vis. Prima o poi, più prima che poi, questo nodo deve arrivare al pettine e deve arrivare sulle scrivanie di Cavit. E' nell'ordine delle cose che sia così. Il rientro di La Vis, dopo le opportune cure che il commissario sta praticando, nell'orbita del consorzio di Ravina appare scontato: ma cosa ne pensano i soci del primo grado? Quale è la loro opinione? Ma soprattutto come si può, dopo vent'anni di addomesticamento alla mezzadria, oggi, condividere con loro una questione così lacerante, che mette in gioco lo stesso principio della mutualità cooperativa? Chi ha il coraggio di farlo? Chi ha il coraggio di spiegare ai soci di Avio o di Nogaredo, piuttosto che a quelli di Toblino o di Aldeno, che si impone una scelta mutualistica radicale e di responsabilità. Perché questa è nel DNA di una cooperazione che abbia ancora voglia di essere autenticamente cooperazione? Chi ha il coraggio di spiegare in modo convincente che Cavit oggi, grazie alla sua solida patrimonializzazione e al suo equilibrio di bilancio, è nelle condizioni, e deve, fare uno sforzo che, buttiamola lì, potrebbe essere nell'ordine dei 30 milioni di euro?
Poi ci sono le questioni di modello e anche queste pretendono una risposta. Come dovrà essere il vino trentino del futuro? Un vino identitario e di territorio o, ancora e per sempre, un vino internazionalizzato e costruito su misura per soddisfare le esigenze del mercato globale? Un vino commodity o un vino che interpreta il territorio per diventarne motore di sviluppo collettivo e condiviso?
E ancora, altra questione che forse è la madre di tutte le altre: come ridisegnare, e se ridisegnare, il rapporto fra primo e secondo grado? E quindi quale deve essere, per i prossimi dieci anni, il profilo della soggettività cooperativa di base? Quale il suo ruolo politico e culturale?
Sono tutte domande che pretendono una risposta chiara o almeno un indirizzo orientativo, ora che l'epoca Orsi sta per finire. Sono stati nove anni intensi e anche difficili quelli retti dal presidente lagarino. Cavit è cambiata, radicalmente. Si è solidamente patrimonializzata, ha azzerato il debito e ha fatto crescere utili e fatturato. Si è dotata di una classe manageriale efficiente e moderna. Ha affrontato le difficoltà del mercato in crisi di questi ultimi anni internazionalizzandosi ancora di più e in questo modo ha contribuito a tenere in piedi, pur nel mare in tempesta, anche il primo grado. Rispetto a dieci anni fa manca all'appello solo una sociale: quella di Nomi. Una piccola realtà naufragata per eccesso di avventurismo della sua dirigenza locale. Ma a parte questo, durante il governatorato di Orsi, il sistema ha retto. E, se devo dirla tutta, ha manifestato anche qualche timida apertura verso il territorio.
Oggi però, dopo tre mandati consecutivi, la stagione orsista è al tramonto, al naturale tramonto. E sullo sfondo, silenzioso e quasi omertoso, si delineano due candidature che per il loro profilo sembrano contrapposte e ricordano la sfida di qualche mese fa per il controllo di via Segantini e della Federazione. I due candidati alla presidenza, Bruno Lutterotti - presidente della Toblino - e Diego Coller - presidente della Roverè della Luna -, per quanto ne so non hanno presentato piattaforme programmatiche. E se lo hanno fatto, lo hanno fatto di nascosto e non hanno socializzato i loro programmi.
Riprendendo, per comodità ma non solo, lo schema del recente confronto per via Segantini, possiamo provare a tracciare un profilo dei due, cercando di interpretare con le pinze le loro biografie.
Il primo, Lutterotti, pur senza averne la caratura intellettuale e la forza eversiva ed essendo anche lui un uomo ben calato dentro il sistema - attualmente è vicepresidente di Cavit e uomo forte di Cantine Palazzo - mi sembra interpretare il ruolo che mesi fa fu del professor Gios: da lui, a capo di una coop con oltre 600 soci, un patrimonio di oltre 5 milioni di euro e dodici milioni di fatturato - arriva una sottolineatura "forte" del ruolo primo grado. Ho la sensazione che il modello a cui Lutterotti fa riferimento sia un modello più orizzontale, che ha l'ambizione di riequilibrare le relazioni, ora sbilanciate, fra primo e secondo grado; è un profilo, il suo, che mette l'accento su ruolo del socio e delle periferie rispetto al cento. Il secondo, il presidente della piccola, si fa per dire, Sociale di Roverè - 275 soci, un patrimonio di oltre 4 milioni di euro e un fatturato di quasi nove milioni, la cui forza deriva anche dall'incidenza sulla prestigiosa doc alto atesina -, mi sembra invece un uomo di sistema e di aderenze istituzionali. Un candidato di vertice che sta tutto dentro, per relazioni, appoggi e frequentazioni, il sistema. Interprete di un modello verticale e istituzionale: un Fracalossi, anche qui con tutte le dovute sfumature e differenze, della vitivinicoltura. Posso sbagliare ma la partita mi pare si stia giocando sommessamente, in silenzio, con i piedi di velluto, fra queste due opzioni: un modello di sistema verticale e un modello meno sistemico e più orizzontalizzato.
E' chiaro fin da ora che a seconda di chi sarà il nuovo presidente, saranno date risposte differenti alle tre questioni che ho enunciato poc'anzi.
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Nacque a La Fratta nella seconda metà del XIII secolo, oggi nel comune di Sinalunga (SI). Figlio del conte ghibellino Tacco di Ugolino e di una Tolomei e fratello di Turino, era un rampollo della nobile famiglia Cacciaconti Monacheschi Pecorai, e insieme con il padre, il fratello e uno zio commetteva furti e rapine, nonostante la caccia che gli veniva data dalla Repubblica di Siena. Una volta catturati, i membri maggiorenni della banda vennero giustiziati nella Piazza del Campo di Siena, mentre Ghino e il fratello si salvarono grazie alla loro minore età. Rifugiatosi a Radicofani (SI), una rocca sulla Via Cassia, al confine tra la Repubblica di Siena e lo Stato Pontificio, Ghino continuò la sua carriera di bandito, ma in forma di "gentiluomo", lasciando ai malcapitati sempre qualcosa di cui vivere. Boccaccio, infatti, lo dipinge come brigante buono nel suo Decameron parlando del sequestro dell'abate di Cluny, nella II novella del X giorno: Ghino di Tacco piglia l'abate di Clignì e medicalo del male dello stomaco e poi il lascia quale, tornato in corte di Roma, lui riconcilia con Bonifazio papa e fallo friere dello Spedale. Dante, invece, gli concede un posto tra i personaggi citati nel sesto canto del Purgatorio della sua Divina Commedia, quando parla del giurista Benincasa da Laterina (l'Aretin), giureconsulto a Bologna, poi giudice del podestà di Siena, ucciso da un fiero Ghino di Tacco.