Presto mi ritrovai a cantare nei giorni di festa, alle fiere, nei mercati.
Si faceva crocchio intorno a me, tra sensali di bestie, calzolai, scalpellini, trattori affacciati sull’uscio della loro osteria, venditori ambulanti venuti dal piano per l’occasione, le spalle piegate da un grosso corbello ricolmo di mercerie e terraglie.
Bastava che mi alzassi piedi, che cominciassi con lo schiarirmi la gola, e intorno si faceva silenzio.
Pure gli sciagurati che si giocavano i denari a carte nelle mescite di vino, pure i perditempo tutti presi dalle bocce o dalla ruzzola, si fermavano.
Chi aveva l’urgenza di concludere un affare si compiaceva di mettersi un po’ discosto e di abbassare la voce. Perfino chi più in là faceva la giornata tirando carri e diligenze per la salita si voltava e col rimirarmi prendeva fiato.
Ci tiravo poco di guadagno, a volte una fetta di cacio su un foglio giallo e un fiasco a calare in una botteguccia, a volte nemmeno quello. Però di quanto veniva in tasca non mi importava.
Cantavo, cantavo cose che mi venivano così, ignote perfino alle mie orecchie, oppure cose che avevo imparato da bambina, cose che i vecchi ci insegnano quassù da noi.
Perché poi nemmeno Beatrice improvvisava tutto. Questo lo diceva la gente, ma così non era.
Avevo invece fermi e pronti in memoria canzoni e rispetti quanti ce ne vogliono, strambotti, lettere d’amore in rima e un bel po’ di leggende, di quelle che i cantastorie portano in giro.
Mi bastava raffazzonare quei versi uditi e ricantati le cento volte, e quando m’invogliava ne componevo per somiglianza: e vi riuscivo a meraviglia.
Cantavo la lotta di San Michele con il drago e le peripezie di San Pellegrino, figlio di Romano, re di Scozia, cantavo tutta la storia del Nuovo Testamento e un bel pezzo del Vecchio.
La mia vena, davvero, pareva non esaurirsi mai.
E prima ancora che della gente era mio lo stupore di che mi sentivo l’anima occupata.
(da Paolo Ciampi, Beatrice, il canto dell'Appennino che conquistò la capitale, Sarnus)