Pride Village, quella (mini) Fiera del Mediterraneo che ha unito Palermo
martedì 16 luglio 2013 di Michele Scarpinato
L’aspetto fisico dei Cantieri (grandi capannoni dai quali entrare e uscire) e le strade (spazio tra un capannone e l’altro) piene di bancarelle di vario tipo ricordavano un po’ la Fiera del Mediterraneo. Tutti quelli che ho incontrato autonomamente hanno pensato la stessa cosa. La Fiera del Mediterraneo, per chi non fosse di Palermo, è stato un appuntamento canonico per ogni palermitano, dove passare una sera d’estate in maniera diversa e dove lamentarsi perché tutto costava troppo e perché ogni anno c’erano le stesse cose. Purtroppo sono anni che i palermitani sono privati di questo evento, a causa, naturalmente, della cattiva amministrazione che ha consumato in maniera scellerata tutte le risorse possibili.
C’era il gazebo con caramelle, zucchero filato e mele caramellate, c’era lo stand del tiro a bersaglio in cui si vincono i peluche, e tanto altro. Mancavano le giostre, ma in compenso c’erano due palchi dei concerti che riempivano l’aria di melodie più o meno conosciute. Le strade erano piene di gente che si salutava ad ogni passo e aggiungeva un’aria di familiarità che andava oltre il classico incontrare sempre la stessa gente negli stessi posti. Ai Cantieri c’erano tutti: amici che vedi spesso e amici che non vedi mai. C’erano persone che neanche sapevano che esistessero i Cantieri e c’era chi abitava nei dintorni.
L’aspetto “fieristico” del Pride Village, criticato dai duri e puri (quelli che avrebbero preferito solo polpettoni teoretici sulla omosessualità, che odiano il corteo definendolo una carnevalata), secondo me ha avuto un ruolo fondamentale per avvicinare al mondo LGBT quelle persone che normalmente si guardano attentamente dall’entrarne in contatto: ho visto con i miei occhi persone del quartiere che fino ad allora avevano parlato solo con disprezzo o con pietà degli omosessuali girare per il village, con occhio curioso, cercando quella anormalità che non hanno trovato. Inoltre, anche se l’occhio fosse caduto su qualche bacio saffico, o mani maschili intrecciarsi, a loro sarebbe toccato accettarlo o andarsene.
In quell’atmosfera di festa forse non si sono messe da parte le proprie convinzioni sull’omosessualità, ma si sono messe in gioco. Solo chi non ha messo in gioco le proprie convinzioni, rimanendo dell’idea che l’omosessualità coincida con la depravazione, non è venuto nemmeno un giorno; chi invece ha ceduto alla tentazione è tornato a casa sicuramente con un’idea più articolata: magari non avrà gradito lo scambio di baci tra ragazzi o il transessuale aggirarsi per il Village, ma sicuramente ha potuto cogliere che non rappresentano per lui alcuna minaccia. Queste conseguenze non sono da sottovalutare, perché rappresentano già un primo passo per il cammino del cambiamento culturale.
Ma cosa si aspettava, oltre le cose “scandalose”, il palermitano medio? Per usare le parole di Daniele Silvestri, si aspettavano “fenomeni da baraccone” che cantassero e ballassero, come se ogni gay avesse velleità artistiche da mettere in mostra con tutta la sua eccentricità. Drag queen a parte, invece, non hanno trovato nulla da definire eccentrico e nessun motivo per distinguere le preferenze sessuali dei vari artisti sul palco.
Questo Pride è stato definito “molto eterosessuale”. Credo che questa definizione possa essere stata data da chi in fondo alla sua superficiale omofilia si aspettava l’ostentazione della normalità omosessuale oppure la scarsa partecipazione degli eterosessuali.
Quello di Palermo è stato un Pride in cui la città si è mostrata fiera di riconoscere che non è vero che siamo tutti uguali, ma che siamo tutti diversi e fieri della propria diversità, della propria identità.