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Dodge City incontra Shaolin nel piacevole fantasy “Priest” di Scott Stewart - un film (dalla travagliata storia produttiva) multistratificato sul piano culturale. Di produzione americana, è liberamente tratto da un manhwa – manga coreano – di ambientazione (anche) western. La sceneggiatura di Cory Goodman realizza un fanta/horror-western di concezione post-apocalittica: dove il disastro non è stata la solita guerra atomica o l’ecocatastrofe, bensì la grande guerra contro i vampiri, che in questo universo narrativo sono creature cieche non umane e si sono battuti con l’umanità da sempre. La Chiesa li ha infine sconfitti grazie a un ordine di guerrieri (i Priests e le Priestesses, dalla croce tatuata in fronte). I vampiri sono stati confinati nelle riserve e la Chiesa ha stabilito una dittatura teocratica nelle città degli uomini, mentre i Priests sono stati emarginati. Quando uno di loro (Paul Bettany) apprende che sua nipote è stata rapita da una nuova ondata di vampiri (alla quale la chiesa non crede), si ribella ai Monsignori e si avventura nel deserto per salvarla – o per ucciderla se è stata contaminata.
Non è una novità che l’ambientazione western si adatta molto bene al cinema fantastico (quanto al vampirismo, poi, basterebbe citare Carpenter…). “Priest” ci gioca fin dall’inizio, con l’attacco alla fattoria, e poi con le moto futuristiche al posto dei cavalli, il giovane sceriffo innamorato della ragazza rapita, le anarchiche cittadine di frontiera, il medicine show, il parallelismo insistito fra i vampiri e gli indiani nelle riserve; a volte (le scene del treno) si sposta interamente sul terreno dello steampunk western alla “Jonah Hex”.
Scott Stewart incrocia il western con la cinematografia orientale di arti marziali, che significa un dispiego di fantasia visuale nei combattimenti. Basta citare il Priest che, sotto attacco, apre la Bibbia facendone volar fuori tante piccole croci che afferra al volo e lancia come shuriken ninja. O la scena memorabile in cui, per raggiungere un vampiro in alto su un dirupo, spicca un balzo e poi lo prosegue (quasi un Barone di Münchhausen delle arti marziali!) poggiando il piede sopra due pietre pure esse in volo, lanciate dalla Priestess: Maggie Q, che a sua volta è un incrocio vivente fra il cinema americano e quello orientale.
Ma c’è un ulteriore strato da menzionare: poiché lo spettatore si accorge ben presto di stare assistendo a un abnorme remake di “Sentieri selvaggi” di Ford. L’ambientazione fantastica coi vampiri al posto degli indiani consente di connotare i rapitori delle ragazza come razza nemica senza violare i tabù del politically correct. Anzi, implica un rovesciamento di prospettiva rispetto al capolavoro fordiano. In “Sentieri selvaggi” l’ossessione di Ethan (John Wayne) per la “contaminazione” della nipote rapita - ed è la grande ansia americana sulla miscegenation - era un demone del suo inconscio, che Ford concretizza simbolicamente in una caverna nello sconvolgente climax. Qui la contaminazione vampirica è oggettiva come un’infezione. L’analogia è formale ma la sostanza profonda viene rovesciata: è una forma, più che di citazionismo, di appropriazione e ricontestualizzazione.
La computer graphics trionfa, nei mostri e ancor più nell’ambientazione: a volte l’elemento real life umano è come un puntino nel quadro della CGI. “Priest” è un film totalmente grafico – perché oggi l’immagine dell’action movie è cinemato/grafica: non solo nel senso della presenza preponderante della computer graphics ma nel senso che l’azione esiste per concretizzarsi in un’immagine visualmente imperativa, come nel fumetto. Pazza cavalcata fra le colline e fra le culture, “Priest” non è un capolavoro (ed è inferiore al notevole “Legion” di Stewart, anche quello interpretato da Paul Bettany) ma si vede con piacere. E’ un Giano bifronte, occidentale e orientale insieme – e in questo realizza il futuro del cinema di genere.
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