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Prigionieri del Gran Casinò

Creato il 15 maggio 2012 da Albertocapece

Prigionieri del Gran CasinòAnna Lombroso per il Simplicissimus

Dubito che Gekko tremi. La storia insegna che il gioco d’azzardo esercita una avida e distruttiva fascinazione sugli uomini, con l’illusoria promessa di un proficuo anche se rischioso profitto, allettante anche in misura dei pericoli che comporta.
“JPMorgan è una delle banche meglio amministrate che ci siano. Jamie Dimon, il capo, è uno dei banchieri più in gamba che abbiamo e hanno comunque perso 2 miliardi di dollari”, ha detto Obama, che intende dare “piena attuazione” a quella riforma di 2300 pagine votata nel 2010, una riforma che avrebbe dovuto dare alle autorità federali ampi poteri di controllo sulle banche, per limitare l’assunzione di rischi da parte delle istituzioni finanziarie e di supervisione di interventi precedentemente non regolamentati. E avrebbe dovuto rendere più facile la liquidazione di grandi istituti, profondamente connessi con lo stesso sistema finanziario, con l’ausilio di un organismo istituito in seno alla Federal reserve per la protezione dei consumatori.

Subito ha espresso il suo appoggio Moody’s preoccupata però che l’uso della ramazza inteso a ripulire la piazza, sia in grado di spazzare via quella opacità dei rischi delle banche d’investimento globali, come anche la difficoltà di controllare questi rischi.
È una caratteristica di questi killer dare una impolveratina di cipria morale sulle loro facce truci. Come è d’altra parte la cifra peculiare dell’implacabile “cupola” planetaria, fatta di grandi patrimoni, di alti dirigenti del sistema finanziario, di politici che intrecciano patti opachi con i proprietari terrieri dei paesi emergenti, di tycoon dell’informazione, insomma di quella classe capitalistica transnazionale che domina il mondo e è cresciuta in paesi che si affacciano sullo scenario planetario grazie all’entità numerica e al patrimonio controllato, che rappresenta decine di trilioni di dollari e di euro che per almeno l’80% sono costituiti dai nostri risparmi dei lavoratori, gestiti a totale discrezione dai dirigenti dei vari fondi, dalle compagnie di assicurazioni o altri organismi affini. Sono i sacerdoti di una religione che crede e vuol far credere che la finanza sia essenziale alla crescita dell’uomo, non una mignatta ma un motore indispensabile al suo progresso.

Eppure i dati, ammesso che i tecnici sappiano leggerli, parlano chiaro: nel 2008 il prodotto lordo mondiale era calcolato in 61.200 miliardi di dollari. Il valore totale dei titoli azionari ammontava a circa 57.500 miliardi mentre quello dei titoli obbligazionari era del 35 % in più: oltre 82.000 miliardi. L’esplosione dei titoli di mercato ha favorito quel massiccio ricorso all’indebitamento che inevitabilmente si accompagna a un altrettanto formidabile incremento delle disuguaglianze. Il Moloch intrinsecamente instabile ha bisogno di nutrimento continuo di risorse per sostenersi, attacca e divora beni comuni e diritti, anche con la privatizzazione e finanziarizzazione dei servizi essenziali. I grandi giacimenti insomma siamo noi: come in una lunga catena di Sant’Antonio i nostri conti correnti, fondi di investimento, fondi pensione, alimentano il trasferimento di risorse dal lavoro alla finanza, così che oltre che vittime della crisi ne siamo anche complici.

Eppure la cabala della turbo finanza che conferma i sospetti sulla sempre più iniqua mutazione capitalistica, non convince quelli persuasi che si tratti solo del costo inevitabile ma transitorio di una nuova originale e fertile avanzata dell’economia. Proprio come altri despoti del passato alzavano gli occhi al cielo presentando le loro personali stragi come il prezzo ineluttabile, il sacrifico necessario da offrire alla storia, loro si dolgono mentre muovono i loro eserciti – anche in senso proprio – e i loro cosacchi quelli del rating, che, travalicando la funzione tecnica di valutare i rischi dei singoli titoli, si sono dati da sé il compito di giudicare l’affidabilità complessiva del debito pubblico dei governi. Una volta si era convinti che lo Stato fosse l’agente del capitalismo. Non ci si aspettava che il capitalismo diventasse il giudice dello Stato, con una funzione decisamente politica esercitata con modi tecnicamente assai discutibili come confermato dai tanti attestati di ineccepibile solidità emessi dalle agenzie a “beneficio” dei risparmiatori su grandi banche d’investimento alla vigilia del loro clamoroso fallimento (per la cronaca: nel 2008 sette giganti “votati” con titoli lusinghieri dalle agenzie di rating, Aig., Bear Sterns, Citigroup, Contrywide Financial, Lehman Brothers, Merryl Lyngh, Washington Mutual, collassavano con perdite di 107 miliardi di dollari, non gravanti sui loro dirigenti che nel frattempo – 2007-2008 – intascavano 450 milioni di dollari).

Non basta più che si applichi una improbabile per non dire irrealizzabile trasparenza a Wall Street. Non basta più temperare l’accumulazione rapace con qualche premessa o promessa di benessere diffuso. Non bastano più le manovre seriali vane a placare l’avidità del mercato. Non basta aggiungere un po’ dell’illuminato miele dei Medici nelle imprese dei Madoff. L’esplosione della finanza segna inevitabilmente una inversione nei rapporti tra economia e finanza, il cui caposaldo “etico” sarebbe arricchire i più disinvolti e fortunati e impoverire i più timidi e sfigati.
Ha ragione il Simplicissimus, la rivolta contro la dittatura dello spread e di ciò che essa significa, richiede nuove ideazioni e organizzazioni politiche, una mobilitazione popolare che è già in atto altrove e che deve partire dai diritti e dai bisogni reali per riscoprire la speranza.
Max Weber deride chi sogna un mondo migliore. Chi vuole radiose visioni, dice, è meglio che vada al cinema. In troppi ci sono andati, a vedere l’ascesa sfrontata dei Gekko sperando di diventare come loro. Invece nel nostro film la ricchezza deve essere quella dell’equa e pubblica felicità in un paesaggio armonioso, nel ragionare insieme fiduciosamente del futuro, nell’esprimere una creatività che non mira a accumulare il superfluo ma a far circolare la bellezza.


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