Non volevo scrivere nulla oggi: questo diario di bordo di un’epoca e di qualche persona, sta diventando noioso, vista la necessità di ripetersi, l’inutilità della ragione che scivola come pioggia sui vetri del potere e dell’informazione. Ma l’assalto ad Equitalia, con la sua drammaticità di rivolta incipiente mi trascina alla tastiera. I sussurri e le grida, i lacrimogeni e le bombe carta di una rivolta fiscale che serpeggia cambiano la situazione e invocano un Parlamento che invece si aggrappa ai tecnici, esautorato dalla sua stessa incapacità e paura. Perso dietro la partita a scacchi della politica più banale, con forze politiche isteriche e mute allo stesso tempo.
Non so quante volte mi è venuto di dire che in quarant’anni di malgoverno o di mediocre governo, il Paese ha finito per trovare un suo equilibrio deforme e inefficiente o meglio, un stabile disequilibrio che è divento palude senza orizzonti quando la dialettica politica ha cessato di proporre alternative, per ipostatizzarsi in Berlusconi prima come personaggio dalla storia e dagli istinti opachi, poi come simbolo e infine come feticcio e sostituto di un progetto.
Prendere atto di un fallimento complessivo era il compito della politica o comunque di quel poco di buona politica rimasta. Ristabilire in tempi non eterni, ma ragionevoli un nuovo patto sociale che ci riportasse dentro lo spirito dell’Europa e ci allontanasse invece dalla sua svagata burocratizzazione dentro la quale la finanza infila i suoi tentacoli, era un buon programma per il cosiddetto centrosinistra. Rimettere al centro dell’attenzione e della “cura” il lavoro contro rendite e privilegi, era il compito dell’intera società.
Ma nulla di tutto questo è accaduto, nulla di tutto ciò sembra comparire nell’agenda politica. Si è preferito badare a strategie di piccolo cabotaggio, tentare di salvare fette di potere e affidare la ristrutturazione della nostra “casa” a tecnici privi di capacità di visione, a ideologi della finanza nella speranza che mettessero a posto le cose. Non lo hanno fatto, come era ampiamente prevedibile: privi di sensibilità sociale, lontani per appartenenza di classe dall’equità, subornati dalla fede in ricette che hanno portato alla crisi piuttosto che avere la capacità di risolverla, non avevano proprio la competenza richiesta Saper fare di conto, non significa saper fare i conti con la storia. Hanno esercitato il loro mestiere pensando che si possano raddrizzare le situazioni a colpi di macelleria, hanno firmato cambiali in bianco insostenibili, fiancheggiati da partiti con la brocca di Ponzio Pilato e da potentati intimoriti da possibili cambiamenti reali.
E ora raccolgono tempesta, assieme a chi li ha voluti e e si ostina a volerli nonostante il chiaro fallimento. Il vischioso disequilibrio della società italiana non può essere cambiato per decreto, senza una “rivoluzione”, senza un nuovo patto sociale che riscatti l’assenza dei padri e dia una speranza ai figli, senza politica. E il tentativo, sempre più ottuso, sta suscitando venti di rivolta che peggiorano la situazione e innescano una perdita di fiducia nel Paese che rischia di andare ben oltre il discredito per le squallide buffonate dell’ex premier. Se qualcuno dentro i partiti ha qualche idea che non sia una gattopardesca via di salvataggio per l’equilibrio delle oligarchie, la tiri fuori, prima che sia troppo tardi. Anche per le idee.