We have no more space,
For all your tired and dirty past
And I believe It all to be true
Beyond this time, You will pull through
Il quartiere di Marais si apriva alla primavera con la sua vivacità urbana, in quelle mattine in cui la luce affonda i suoi arti tra le pieghe dei palazzi intorno, lasciando le ombre giocare con i rivoli di mattoni e la siluette di certi lampioni affusolati, nella loro posa fiera, a monitoraggio vigile sul traffico umano che scorre sotto.
Il Piment Cafè in rue Sévigné 15 conteneva la sua clientela fedele che andava a muoversi tra il legno vicino, alienata dai fasti frenetici di una giornata a metà del suo corso, persone strette nello spazio tra il bancone e la pila di computer a cornice del muro, tutte intente ad ordinare, bere caffè, leggere svogliatamente giornali predisposti, parlare ai rispettivi telefoni, contemplare un pezzo di ciambella in laico silenzio.
Livia entrò in quel momento nel bar, avendo cura di non urtare due ragazzi appoggiati sul retro della porta, e si diresse verso la ragazza della postazione caffè per ordinare due cappuccini e due croissant da portare via.
La signorina registrò la richiesta e si mise all’opera, mentre Livia riuscì a svincolarsi dalla calca di gente che rivendicava un posto nei pressi del bordo del bancone, appoggiò il gomito sinistro e si inclinò di 45 gradi per osservare ciò che accadeva davanti a lei.
Spostò sui capelli gli occhiali dalle lenti specchiate, sfregò la punta delle dita vicino all’occhio per eliminare un segno di matita che sentiva essersi sbavato in quel movimento di prima, diede un’occhiata rapida per assistere a una pausa feriale di cui lei non era partecipe, poiché si trovava in quel luogo per consumare due giorni di totale vacanza, a Parigi.
Avvertiva tuttavia un senso di pacato disagio nel trovarsi leggera e smorzata da vincoli lavorativi in mezzo a persone che non vivevano il suo medesimo stato di grazia, che non la guardavano neppure, tutti concentrati a rimpiazzare un quarto d’ora d’aria carceraria che andava a redimere tutto il tempo successivo di ripresa del dovere.
La signorina del bar le porse il pacchetto con il suo ordine, Livia ringraziò cortese e sgusciò fuori dal Piment, a contatto con il mondo fuori, con quella luce tersa che continuava il suo gioco atmosferico, si portò due passi avanti e andò a sfiorare una schiena coperta da un trench nero, che l’aspettava di spalle.
Al tocco gradatamente sfiorato della mano di Livia, Giorgio si voltò e si ritrovò i suoi occhi aperti con un grandangolo vivo, mentre poco sotto il viso un sorriso raggiante, come se avesse morso un pezzo di sole, brillò vivace, e lui non poté non ricambiare quell’invito al risveglio e a consumare da qualche parte la colazione, e le porse il suo di sorriso, altrettanto appagato e spontaneo.
Le chiese di portare il pacchetto del Piment, con l’altra mano le spostò sfacciatamente gli occhiali dai capelli per farli ricadere ad appannaggio degli occhi, custodì la sua smorfia di falso risentimento e l’avvolse sotto il suo braccio, procedendo insieme verso Place des Vosges, poco distante da li.
Il prato ad accoglierli, custode dei loro corpi avviluppati sull’erba, Livia con le gambe incrociate e un braccio disteso all’indietro come da appoggio, Giorgio di fronte a lei ma steso, inclinato lateralmente, a formare una mezzaluna, in contemplazione reciproca di sguardi, e da contorno bicchieri di cartone con il cappuccino ormai consumato, pezzi di cornetti a termine di sazietà, briciole sparse.
Parigi raccoglieva due amanti in panoramica visione trasmettendo ogni sua romantica e mai noiosa veduta, incastonata nei portici dell’edificio intorno al parco, raggrumata tra le foglie degli alberi che si godevano la carezza del solito vento del nord, in placida ammirazione delle vibrazioni pulsanti che provenivano da quei ragazzi adagiati tra la natura e una città che si prostrava a sedurli nelle ore che sarebbero giunte, nei piani di Giorgio di vagare tra bistrò e negozi vintage, e nella fiducia che Livia mostrava nel non voler alterare quell’idea di giornata che rasentava una qualche perfezione romanzesca.
Si verificò una meravigliosa fuga di attimi, una volta lasciato il parco, a ridosso delle stradine di Marais, a vivisezionare vetrine, entrare fugacemente, nutrendo distrazione come precario interesse, tenendosi vicini, tra molecole che venivano scambiate ad ogni abbraccio, dentro ogni mano legata all’altra, nel mezzo dei loro volti che scrutavano la reciproca fronte, che si sfidavano in una vivace lotta di baci, che catturavano le risate e le pupille ammaliate della rispettiva bellezza.
Imboccarono Rue Veille du Temple, e Livia sembrò fermare il passo per pochi secondi, come se la consapevolezza del ricordo del loro primo incontro avesse teneramente frenato la marcia, per ritornare a rivivere e a dispiegare la sua buffa progressione, risalendo a guisa di falco, e portando con sé quel pomeriggio d’inverno, le luci fioche, la sua ritrosia rispetto al reiterato sguardo di Giorgio, che le aveva inviato un chiaro messaggio di scelta, senza neppure sapere chi fosse, sconosciuti loro, ma vittime di una medesima attrazione sfoggiata in pochi secondi.
Giorgio comprese l’arrancarsi di Livia, comprese il motivo e si fermò con lei, quasi a voler assistere alla programmazione di quel piccolo cortometraggio che si stava svolgendo nella testa della ragazza, come se quelle immagini ora così nitide come se da poco compiute, fossero travasate fuori, a gentile concessione del ragazzo.
Soddisfatto di quell’emozione proiettata su di lui, non perse tempo nell’afferrare Livia avvolgendola dal bacino e spingendola verso il suo torace, mentre con la mano le spostava il viso verso la sua direzione per poterle siglare un ennesimo ma sublime bacio, a marchiare la potenza di quel ricordo, che era divenuto quotidiana vita, che aveva conquistato un presente reale, una relazione tangibile, la loro storia.
Si diressero alla ricerca del civico 25 di Rue Veille du Temple, che ospitava un negozio vintage, Yukiko, su espressa richiesta di Livia, che adorava trascorrere ore piene in quei piccoli bazar che richiamavano a un’epoca ormai estinta, di cui rimanevano accattivanti cronache e preziosi accessori.
Entrarono nel negozio, ricevendo il caldo benvenuto della proprietaria, iniziarono a perdersi tra le pareti rosa antico e lavanda, tra le grucce su cui erano posati con ordine vestiti dal sapore retrò, borse con catenelle di note griffe, esposti sugli scaffali foulard sgargianti e cappelli dalle forme più varie.
Livia vagava con piglio curioso, scrutando negli spazi tra un vestito e un giubbino di pelle, sollevando le sciarpe, mentre afferrava tutto, girava le borse e le riposava, si soffermava vicino ai gioielli per capire da dove potessero provenire, si spostava nuovamente verso l’abbigliamento, ora con il preciso intento di dedicarsi ai cappelli.
Giorgio la seguiva senza disturbare, pronto ad ascoltare i suoi commenti circa la gradevolezza di un abito piuttosto che un jeans, o cercando di comprendere l’entusiasmo rispetto a una clutch di pelle rossa rubino, quando d’un tratto Livia afferrò un cappello di panno nero, dalla forma ellittica, e iniziò a giocare di fronte allo specchio.
Si muoveva come ad atteggiarsi a diva, in buffe posizioni laterali, alzando di poco la gamba, inclinando il cappello sul viso a coprire gli occhi, per poi alzarlo di colpo e lanciare un ultimo sguardo alla sua immagine riflessa, accennando ripetute risate per quel suo vezzo vanitoso e ludico, senza volgere la minima preoccupazione rispetto a un riserbo ipocrita che poteva scaturirle, per il semplice motivo di sostare in un luogo pubblico e non nell’intimo della sua stanza da letto.
Giorgio si trovava a debita distanza, dietro di lei, e osservava Livia dallo specchio, la guardava, con fare intenso, nei suoi gesti giocosi, nelle sue pose da cinema, osservava la linea del suo corpo, le mani affusolate nella presa del tessuto di panno del cappello, le gambe slanciate che seguivano piccoli centimetri di suolo in un tip tap leggero davanti al vetro riflettente. La guardava, restando ammirato rispetto a quella bellezza sincera, dirompente, dalle particolari pieghe, che rivelava attraente sensualità, che giaceva libera dentro il suo riflesso, che emanava una passione virulenta, quando era a completo agio, quando Livia era completamente distesa e rilassata, non contratta, non in tutte le sue tensioni emotive, non imbronciata.
Era piena della sua bellezza, e non se ne rendeva nemmeno conto.
Quando Livia intercettò lo scrutare sfacciato di Giorgio, quegli occhi cristallizzati su di lei, arrestò quel lascito sensoriale e quell’abbandono alla libertà e si voltò verso di lui per chiedere:
“Cosa c’è? È successo qualcosa?”
“Ti guardavo.
E sei bellissima”. Fu la sua risposta.
Livia interruppe ogni spasmo del corpo, sgranò il volto verso il ragazzo che aveva appena pronunciato 5 parole dal sapore glucosico e avvolgente, come quei profumi dal bouquet fiorato che si stampavano tra gli alvei di olfatti amplificati, per poi disperdersi tra vene accoglienti e schiudersi a margini di tessuti cardiaci.
Le parole di Giorgio, di una sincerità disarmante, prive di ogni programmata venuta, che viaggiavano in un treno colmo del più livido sentimento, trafissero le trame del giubbotto di Livia, a formare uno squarcio benigno, e stordirono la ragazza ormai completamente abbandonata e tesa verso il ragazzo, il suo uomo, la sua attuale scelta.
Sottili, come le corde di un violino teso e in procinto di spargere audace musica, pizzicarono pensieri fraudolenti e appartenenti a mesi addietro, nella regia di altre città, altri luoghi e altre persone. Su tutte, la corda che vibrò in un modo dannatamente potente, fu quella che accoglieva il pensiero di Vanni, sgusciato come accadeva di consueto, con il suo penoso benvenuto.
Livia si discostò per piccoli frammenti temporali da Yukiko e dalla visione di Giorgio, per ripiombare in una scena similare, si ritrovò a Milano, sempre nel solito negozio vintage, Vanni insieme a lei. Di nuovo il boato di quel pensiero contratto e amaro riprese a recitare le sue tristi battute, e Livia sussultò forte quando provò a ricercare in quella pantomima mentale la presenza di un qualche assonanza con le parole di Giorgio, ma pronunciate dalla voce di Vanni.
E fu vano il seguitare di quella ricerca, perché Vanni non aveva mai rivolto nei suoi confronti un qualche accenno benevolo rispetto alla figura di Livia. Non una parola sprecata, non un futile complimento.
Un assordante silenzio.
Livia ritornò in sé, ritornò a Parigi e ritrovò davanti a lei Giorgio, che ora iniziava a scrutarla con un fare interrogativo, come se avesse colto quel distacco spazio temporale in cui si era calata la ragazza.
Mise a tacere immediatamente le corde, non volle ascoltare nessuna spiacevole musica, spostò il suo passo nella direzione di Giorgio, poggiando lo sguardo fisso su di lui, ma sciolto in una tenera veduta, cercando di trasmettergli tutta la sua gratitudine rarefatta rispetto a quel mazzolino di parole che le aveva trafugato il cuore.
Era estremamente vicina, sollevò la punta dei piedi per pareggiare l’altezza, immerse le dita tra i capelli del giovane e lo baciò, convinta, iniettata di ogni tipo di spinta sensuale, andando a riversare passione sul tocco della lingua, tra i bordi delle loro labbra, quasi a saldarsi completamente a lui, a porgerle ogni sua resa, ogni sua manifestazione emotiva, ogni sua conferma rispetto a un uomo che continuava a sceglierla, ma soprattutto che non cessava di “guardarla”.
Livia staccò la presa di quel bacio per porgere la bocca a contatto con l’orecchio di Giorgio, con la precisa richiesta di andare a casa, di farlo in fretta, perché un’urgenza di scambiarsi la pelle stava risalendo dentro di lei, senza controllo.
Fu un susseguirsi di passi, un saluto rapido alla proprietaria di Yukiko con annessa una falsa promessa di rimetterci piede a distanza di giorni, uscire da rue Vielle Du Temple, ignorando l’incantesimo visivo con cui la strada si mostrava intorno a loro, con il concerto di lampioni dalla luce fioca, i neon delle vetrine accesi, i raggi solari che non pressavano più così forti tra le mura, i rumori di bicchieri di vino che venivano scambiati fuori dalle brasserie. Era giunto il tramonto, ma per Giorgio e Livia non sembrava avere alcuna importanza.
Rue de Perlè, civico 64. Una palazzina antica, priva di ascensore e dalle scale quasi ferrose che rumoreggiavano all’unisono con la velocità della corsa dei ragazzi, la solita incapacità di inserire la chiave nella serratura quando si è tirati da una qualche foga imminente, e poi la porta che viene spinta per poi essere richiusa dolcemente, mentre dietro l’uscio si vanno a susseguire altri baci, e la fibrillante voglia reciproca ad incalzare.
Camminare come due gamberi su un parquet liscio che andava a condurli nello spazio di mezzo del loft, il forte tonfo della borsa che Livia scagliò con impeto per terra non fu avvertito, e il rito degli strati vestiari che si andava a compiersi, in un connubio di vivacità mischiata a lentezza. Prima il trench, il giubbotto, e man mano si avanzava, poi la camicia di Giorgio, e le dita tremanti al contatto con ogni bottone, e una riga perlata di baci che segnava ogni lembo del collo di Livia, con i capelli riversi sul petto di lui, e via il cardigan di lei, con una meravigliosa irruenza data solo da una passione in pronta accensione, e ancora passi indietro, fino a toccare il divano.
Le mani, a ricamare un’epidermide accaldata, completamente dispiegata, in una combustione perfetta, al contatto con un’altra pelle altrettanto piacevolmente provata, come solo la trasformazione dei corpi nell’incontro con il sesso può rendere, le pelli scagliate e magnetiche, e ancora le mani, le labbra conturbate che rincorrono la linea ansimante delle voci quasi azzerate, dei respiri flebili che incalzano, che crescono, mentre le gambe si incrociano, si sfregano, si incontrano, si muovono, si vogliono.
Livia affondò le sue dita nella spalla di Giorgio, per tenersi, per stringere quel corpo che sovrastava ogni sua passione, che andava a sganciarsi per poi ritornare, in un balletto dal volteggio sensuale, in crescita, affamato.
Si teneva, in un trasporto senza alcun freno, senza che una realtà tangibile potesse valere quei minuti in cui entrambi erano saldati, a formare una conchiglia dalle sfumature quasi impercettibili a una vista nitida, che andavano a brillare, e ogni muscolo erogato richiedeva forza, altra forza, e la carne richiedeva il suo sangue, ancora, e ogni spasmo non era abbastanza, in quel climax selvaggio, fecondo, ineluttabile.
Andarono avanti tutto il tempo necessario per esaurire la loro passione, finchè il loro fare l’amore non potesse rendere pienamente sazi, ed esausti. Finchè le dita di Livia non abbandonarono la presa su Giorgio, finchè non scivolarono ritrose e stanche, ma felici, finchè non restarono immobili, l’uno dentro il corpo dell’altra, finchè non si percepì neppure un suono proveniente dai loro fiati, finchè tutto andò a cessare, perché tutto il loro orgasmico pathos non andò a scemare, appagato.
Giorgio si staccò delicatamente da Livia, scivolando via dal divano. Si alzò, non si curò della sua nudità casalinga e si diresse verso la cucina. Livia rivoltò la testa appoggiandola piano sul bracciolo, continuava a tenere gli occhi chiusi e prestò attenzione ai rumori che provenivano da fuori, cercando di contenere quel flusso di passione che poco prima l’aveva invasa del tutto, e lasciarsi cullare da quella vita di strada che procedeva incurante di lei.
Il ragazzo ritornò portando con sé due bicchieri di vino rosso e un piccolo vassoio con del pane saraceno, paté di tonno e prosciutto. Poggiò il tutto sul tavolino che accostava il divano, per poi porgere a Livia il suo calice, ma annunciandolo con un bacio affettuoso sulla fronte, come gesto di autentica dolcezza, che Livia gradì oltremodo, ricambiandolo con una carezza ambrata sul viso di Giorgio, a segnare un momento dalla specialità diffusa, per quanto si fosse già ripresentato, e per quanto non si fosse mai stancata di riviverlo, ancora.
Una volta terminato quel surrogato di cena, con la frugalità e le tenere effusioni a fare contorno, Giorgio si congedò dalla ragazza per dedicarsi a una doccia calda, mentre Livia decise di alzarsi, con il desiderio di accendersi una sigaretta.
Raccolse la camicia sul pavimento, la infilò non badando all’ordine della chiusura dei bottoni, si diresse verso la porta finestra e s’introdusse fuori al balcone che Giorgio curava come se fosse un giardino, in cui aveva disposto un tavolino di ferro battuto con due sedie ornate liberty, con un cestino di fiori finto per addolcire la rigidità di quel mobilio, e come suo personale vezzo di vanità.
Livia si sedette, posò sulla superficie il suo pacchetto con un posacenere rubato durante il tragitto, appoggiò alle labbra la sigaretta e tirò una lunga boccata. La sera, a farle compagnia, era intenta a stendersi nel manto di Parigi.
A seguire, la contemplazione di una pace che fagocitava dentro di lei, una totale rilassatezza emotiva che le pulsava dentro, arterie altrettanto distese e sciolte, una consapevolezza benevola che andava a risalire, che supportava pensieri con un’unica matrice di senso, che le suggerivano parole complici.
Il piacere, il piacere di trovarsi in quello stato di benessere livido, nell’aver goduto di un uomo che aveva avuto la fortuna di incontrare, con cui lo scambio scorreva su identiche note che cantavano senza sbavature o stonature incresciose, che componevano una medesima composizione, che s’urtavano, si riconoscevano, che suonavano armonia, incanto, similare passione, sesso perfetto, amore sprigionato.
La fortuna, altra parola. La fortuna di poter possedere la pelle e gli occhi di Giorgio, il suo costante consenso, la sua perseverante tenacia in quel legame così pazientemente creato, contando il tempo, dosando le ore e gli spazi comuni, in due città diverse, Livia ad Amsterdam, lui in quella superba Parigi che li custodiva senza sbavare in nessun modo il loro amore, ma piuttosto andando ad accrescerlo, a impreziosirlo di ulteriore bellezza.
Perfezione, ennesima parola, che quasi a pronunciarla si aveva paura di infrangerla, di non poterne più abusare, di scalfirla e ferirla, magari ferirsi, nell’incosciente tentativo di rinunciare a crederci, che qualcosa di così naturale e spesso ordinario, che appartiene alla nostra indole fin troppo umana, si possa dissipare e perdersi, e perdere lo stare insieme, il completarsi nella condivisione di uno stesso istante, che dura un tempo indeterminabile, lo stare adagiati accanto, edificando un “noi,” che va a sbattere contro i rispettivi “io” di cui siamo composti geneticamente.
Tutta questa perfezione sembrava così scioccamente irreale, eppure esisteva, e Livia ne conservava la consistenza sotto le dita, impalpabile.
Smise di pensare, azzerò per qualche minuto la sua mente così maledettamente in fermento, e cercò di prolungare il più possibile l’ estasi che aveva costernato la sua giornata dalla prima battuta.
Ad un tratto percepì la presenza di Giorgio dietro di lei, e non aspettò neppure che il ragazzo le rivolgesse la parola, che fece per destarsi dalla sedia, voltarsi verso di lui e inviarle il suo messaggio visivo più dolce, concedergli la lente più carica, i suoi occhi più devoti, “sono tua”, avrebbe voluto dirgli, ma la veste scontata della voce non avrebbe mai retto la totalità viscerale di quello sguardo.
Dall’altra parte di quel cielo che vegliava sui due amanti parigini, dentro una distanza di chilometri e dentro luoghi infestati dall’asetticità che contamina determinati spazi, un ragazzo percorreva un tappeto mobile che tagliava un lungo corridoio dalle tinte grigiastre.
Aeroporto di Bilbao.
Vanni procedeva in mezzo a un mucchio di altri passeggeri appena atterrati in una delle tante hall da cui è diviso l’aeroporto, trascinando il trolley verso l’uscita. Si posizionò di fronte la porta d’uscita e sbucò fuori, per poi fermarsi e controllare i suoi appunti segnati su un foglio alla buona, per comprendere quale direzione avrebbe dovuto prendere per raggiungere la città.
Ripose il foglio dentro la Moleskine nera, la sua fidata compagna di viaggio, che fungeva da contenitore di altri fogli, volantini, vecchi biglietti di tratte passate, e che serbava, quasi a metà dell’involucro, una busta da lettere blu, che andava a spiccare violenta nella confusione cartacea dell’agenda.
In quella lettera vi era Livia, e tutto quello che a Vanni restava di lei.
Dedicato agli uomini che viaggiano a 120 all’ora. Che sono capaci di “guardare”
You Will Put Through – Barcelona