Avventura /Carcerario – Francia/Usa, 1973 di Franklin J. Schaffner
con Steve McQueen, Dustin Hoffman
Considerabile come uno dei migliori film carcerari della storia del cinema da accostare senza esagerazioni accanto a La Grande Fuga, Fuga da Alcatraz e Stalag 17, Papillon (1973) è basato sull’omonimo romanzo del francese Henri Charrière, soprannominato “Papillon” a causa di un tatuaggio a forma di farfalla sul petto. L’uomo è condannato all’ergastolo per un omicidio che non ha mai commesso e si ritrova a vivere in uno dei peggiori sistemi carcerario dell’epoca, ovvero in quello della Guyana Francese. Fin da subito il primo pensiero di Papillon sarà quello della fuga e del ritorno alla vita, anche se sembra praticamente impossibile evadere dall’Isola del Diavolo e anche se ogni tentativo può costargli anni di disumano isolamento forzato. Chi meglio di Steve McQueen per interpretarlo?
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A sostenere economicamente ed emotivamente Papillon nei suoi tentativi di fuga c’è il suo amico falsario Louis Dega, interpretato da un controllatissimo e impeccabile Dustin Hoffman. Dega – per il quale Hoffman afferma di essersi ispirato al timido sceneggiatore Dalton Trumbo – pur essendo un “criminale” è in un certo senso più conservatore e ancora fiducioso nel sistema carcerario e nella società in generale. Egli nutre ancora la speranza che il mondo non li abbia incarcerati e abbia buttato la chiave per dimenticarsi di loro una volta per tutte e che non li releghi lì per rimuovere direttamente dalla circolazione uomini indesiderati perchè “non abbastanza condizionati” e perché “non stanno al passo”, per citare lo stesso Charrière. Papillon e Dega possono sembrare due tipi assoluti ma in realtà sono assolutamente vivi e vividi e con essi lo spettatore si ritrova dunque nel mezzo a parteggiare alternatamente per le scelte dell’uno o dell’altro, vivendo le rispettive esperienze contrastanti di paura e/o slancio vitale, fino alla scena dell’Isola del Diavolo dove si amplificano al limite massimo le opposte pulsioni e fantasmi. Nonostante tutto si tratta di una forte amicizia, di quelle non che si fondano sulla parola e la vicinanza costante (resa impossibile dalle circostanze carcerarie) ma sull’incontro di due esseri umani che si rispettano e cercano di aiutarsi a vicenda per rimanere tali in un ambiente creato appositamente per eliminare ogni traccia di umanità e vita, lasciando solo l’esistenza quando va bene, altrimenti neanche quella…
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L’incontro e scontro tra le fisicità e gli stili recitativi agli antipodi dei due grandi attori è davvero uno spettacolo che lascia senza parole in questa parabola di vita, o vita parabolica, diretta dal grande narratore di immagini Franklin J. Schaffner, la cui regia risulta curatissima e mai banale, a cominciare dai suggestivi interludi onirici di compensazione. Incantevole la parentesi muta degli indios “amici”, quasi un preludio in piccolo a quello che sarà La Foresta di Smeraldo di John Boorman, da contrapporre alla madre superiora, la quale potrebbe tranquillamente esser uscita da un incubo di Buñuel.
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Da tralasciare lo sterile débat sulla veridicità dei fatti raccontati nell’omonimo libro autobiografico da cui il film è tratto: Papillon è un’opera che ha un inestimabile valore di per sé. E alla fine che le “gesta” autobiografiche raccontate dal vero Papillon in carne e ossa (che morì nell’anno in cui il film uscì e che collaborò attivamente ad esso) siano magari frutto anche di esperienze di altri suoi compagni di prigionia conta davvero poco.
Papillon non è un qualunque film denuncia e un grido di libertà che fa tanto anni Settanta. Si tratta di un film che possiede un qualcosa di universale perché capace di toccare corde epiche e simboliche, a partire ovviamente dalla stessa indimenticabile icona che Steve McQueen rappresenta.
Alessandra Graziosi