Magazine Famiglia

Primaria, Watson: andrò alle elementari, so leggere e ho una teoria della mente

Da Paterpuer @paterpuer
Confesso che nonostante la mia aria giovanile e i miei studi pedagogici, parlare di scuole “primarie” e non di “elementari” mi fa sempre un po’ ridere. Chissà, forse mi confondo con le elezioni primarie, americanata che la politica poteva evitarsi, oppure scatta in me la reazione di fronte a una delle mode che qui in Italia ci travolgono: quella di cambiare il nome alle cose per poi non cambiare le cose stesse.
Ieri ho perfezionato l’iscrizione del nostro batuffolo alle scuole primarie. In casa c’è dibattito da oltre un anno, Paola sosteneva che sarebbe stato meglio farlo andare a scuola con una stagione d’anticipo, temendo che le sue abilità di lettura e scritura l’avrebbero in qualche maniera eslcuso dal gruppo-classe, formato per lo più da scolari totalmente ignari delle magie del sistema letterale. La paura era ed è condivisibile.
Le maestre dell’asilo ebbero a confermarci che Samuele, in classe, assieme al suo amichetto del cuore (che anche lui si chiama Samuele), agiva una funzione di equilibrio nel gruppo, mediando, intercedendo e aiutando. Alcuni bambini lo chiamavano “sapientone” ma – sempre stando alle maestre – non si era mai permesso l’aria saccente da maestrino impertinente. Anzi.
La mia riflessione si era sviluppata su tre fronti:
  1. il suo gruppo-classe è il suo humus sociale, un humus in cui è sbocciato e in cui ha trovato una sua dimensione, toglierglielo per paura che non sappia cavarsela da solo sarebbe un arbitrio al limite del sopruso
  2. l’apprendimento non è solo questione cognitiva ma è anche (e per certi versi soprattutto) un fatto affettivo e in qualche modo pure relazionale
  3. non è da escludere che una serie di competenze sovrabbondanti rispetto alla media della classe, gli permettano di definirsi quel ruolo sociale di facilitatore che si è definito da solo, in relazione con quel gruppo di amici.
Certo, i timori rimangono, la paura che tanta passione per la lettura, la scrittura, i conti, il disegno, possa inaridirsi di fronte a un muro di noia, rimane. Dal canto suo lui, a fine anno, aiutò il suo amico a imparare a leggere, dandoci un chiaro ma inconsapevole messaggio. Adesso anche l’altro Samuele legge e addirittura divora i fumetti di Tex...
Iscrizione a scuola, quindi, a età regolamentare. Scuola prescelta: quella verso cui ha convèrso il 90% dei bambini della sua classe.
Viviamo in un paesino, una zona periferica della città, un’area che possiamo definire protocampagnola. Ecco quindi che salta fuori l’inghippo: ci sono troppe iscrizioni (stando alle ricognizioni fatte alla materna) per mantenere una sola classe ma troppo poche per poter richiedere due classi. Il rischio è che alcuni bambini vengano esclusi d’ufficio dalla scuola che scelta, con conseguente dirottamento presso altre scuole con minor numero di richieste.
Se il passaggio fra materna ed elementare (primarie, I beg your pardon) ha anche il senso di un rito iniziatico, beh, ok. Però poter mantenere unito nell’avventura scolastica un nucleo di bambini che si percepisce come gruppo, è un valore che non credo sia possibile trascurare con leggerezza. Si tratta di affetto, relazioni ma pure di quella brutta cosa che deve esser scegliere chi escludere e chi privilegiare. La dirigente scolastica ci ha illuminati sul fatto che lei non può far altro che chiedere e che farà il possibile per mantenere unito il gruppo, garanzie però non ce ne sono.
Ci sono mamme che sanno sempre tutto. Io non so come sia possibile ma alcune mamme, ai compleanni, dimostrano di conoscere non solo la vita e gli altarini degli altri genitori ma anche meccanismi, pratiche e iter burocratici del circolo didattico. Come facciano non so, forse hanno tanto tempo libero a disposizione, a naso mi sembra però che la percentuale di minchiate totalmente inventate sia copsicua.
Se non ci sarà la possibilità di mantenere questo bel gruppo di amici Samu si troverà davvero in un rito di passaggio che sono certo riuscirà a rafforzarlo e farlo essere un bambino ancora più adorabile. Se quest’evenienza dovesse accadere, per noi sarebbe abbastanza tragico il dover gestire il sabato mattina. Abbiamo scelto la scuola anche in base al fatto che era l’unica a offrire il sabato libero; per una famiglia in cui papà e mamma lavorano da mane a sera e in cui mezza parentela abita in un’altra regione, preservare il sabato per stare assieme, fare il corso di nuoto, viaggiare o vedere gli altri nonni è vitale.
È un bel gruppo, non c’è che dire, basti pensare che in classe i bambini si coalizzano gli uni con gli altri, strategia adottata per esempio per fare in modo che i maschietti maneschi la smettano di picchiare, lo fanno non escludendo ma coinvolgendo. Una bella lezione davvero, lezione di fronte a cui avremmo il dovere di reagire con altrettanto spirito collettivistico.
C’è un legame insospettabile fra questi aspetti; lettura e socialità sono interconnessi.
Il senso sociale, il comportamento prosociale, l’idea del collettivo, che a livello di progetto politico trova probabilmente la sua massima espressione nel pensiero anarchico, hanno una propria specifica neurale. Se nei mammiferi la dimensione fisica del cervello co-varia assieme alla stazza, nei primati il volume cerebrale ha proporzioni superiori, specie nell’area della corteccia frontale. È dato quasi per certo che questa espansione sia dovuta alle necessità che gli esseri umani hanno dovuto fronteggiare in relazione alla complessità della loro vita sociale. Secondo una corrente di studi ben accreditata lo sviluppo delle aree prefrontali è la base fisica della “teoria della mente”, (ToM) cioè la capacità di immaginare stati mentali negli altri individui.
“Avere una Teoria della Mente significa comprendere che gli esseri umani sono entità dotate di stati mentali quali credenze, desideri e intenzioni, e che questi stati mentali sono in relazione causale con gli eventi del mondo fisico, ovvero che ne possono essere sia la causa che l’effetto.” [M. Adenzato – I. Enrici]
Lo sviluppo della teoria della mente si lega al Role-taking (capacità di assumere la prospettiva dell’altro) e al Perspective-taking (percettivo: immaginare il modo in cui un oggetto viene percepito da un’altra persona; cognitivo: immaginare pensieri, intenzioni e motivazioni altrui; emotivo: comprendere gli stati emotivi altrui).
Per un animale socialmente complesso come l’essere umano, le capacità socio-relazionali (stringere alleanze, fronteggiare, persuadere…) sono fattori di successo ed evoluzione importanti quanto lo sono lo sviluppo delle attività tecniche di qualsiasi altro genere. Studi di questo tipo fanno parte delle cosiddette “neurosceinze sociali”, che attraverso un lavoro mutuato sui piani sociale, cognitivo e neurale, tentano di comprendere se nel cervello ci siano aree (termine comune ma obsoleto perché oggi sappiamo che il funzionamento cerebrale non è differenziato per aree ma integrato in circuiti) specificatamente dedicate alla competenza sociale o se questa sia spiegabile come semplice evoluzione di competenze linguistiche, mnemoniche o attentive.
È straordinariamente affascinante scoprire come noi umani si cooperi in modo innato sin da piccolissimi (anche a 1 anno di età), mentre questo tipo di comportamento sia del tutto assente in esseri socialmente e intellettivamente sofisticati come gli altri primati. Eh sì, le scimmie non cooperano, possono collaborare a uno scopo comune ma (per dirla in soldoni) se ti vedono in difficoltà non ti aiutano e non si aspettano che tu li aiuti quando, per esempio, non riescono a trovare qualcosa che stanno cercando.
Certi comportamenti sono nostri, solo nostri, solo noi li concepiamo e solo noi li agiamo. Poi succede che a volte il nostro sguardo sia corto-corto sull’orizzonte dell’ombelio ma - come suol dirsi – questa è un’altra storia.
Dalla teoria della mente, ipotesi che risale al 1978, si è passati al “mentalizing” e in anni recenti uno studio italiano pare avere trovato conferma del fatto che ci siano circuiti (corteccia paracingolata anteriore) che si attivano in maniera specifica di fronte a comportamenti che richiedono una comprensione e una riposta di carattere sociale.
E il leggere?
Beh, secondo una ricerca di David Comer Kidd ed Emanuele Castano, la lettura di opere letterarie di spessore produce effetti positivi sulla capacità di comprendere gli stati emotivi altrui. L’alta letteratura (non quindi il leggere in sé, né il leggere narrativa “di genere”) predispongono il cervello a un pensiero creativo più ricco, a un approfondimento intellettivo più esigente. Nello sforzo che si opera per comprendere i micro-rivoli delle storie e le sfaccettature dei personaggi complessi ci si abitua a essere animali sociali migliori, più efficienti nello scrutare la profondità delle persone con cui interagiamo.
La lettura dei blog (credo) non fa tutto questo. Rassegnamoci...

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog