Purtroppo cadere in tranelli è facile, soprattutto in questo paese in cui tutti si proclamano esperti di politica (internazionale in questo caso). Ma ci si dimentica che la Turchia è l'unico Paese democratico a maggioranza musulmana del Medio oriente. In quel Paese esiste una profonda frattura (il politologo Stein Rokkan parla appositamente di "cleavages") fra islamisti e laici, probabilmente più grave di quella che esiste in Italia. Ma la religione ha da sempre un suo statuto ed il modello adottato nel 1923 da Ataturk, fondatore della Repubblica, è quello francese della laicité. Oggi, dal 2002 in particolare, questo modello - basato sulla relegazione della religione alla sfera privata e sul divieto di esibire sulla scena pubblica qualsiasi simbolo che riconduca ad un significato religioso - è messo in discussione dal partito di Governo, l'AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) che ha intrapreso un cammino di riforme interne legato alla prospettiva di adesione all'Unione Europea. Il movimento islamista si è reso conto, dopo l'ennesimo fallimento nella seconda metà degli anni Novanta che, essendo l'esercito il guardiano dei principi repubblicani e, in ultima istanza, del potere, andava perseguita la strategia di ancoraggio all'UE una volta conquistato il potere politico. Così facendo, avrebbe promosso riforme soprattutto nel settore dei rapporti con i militari e, quindi, dello stato di diritto. Oggi gli islamisti sono fortissimi, il loro controllo sulla stampa è pervasivo (sono il primo paese al mondo per numero di giornalisti in carcere), così come quello sulla giustizia e, con l'avvio del processo Ergenekon, hanno messo fuori gioco decine di avversari politici e di militari appartenenti al campo repubblicano. Tutte cose vere.
Le proteste di questi giorni scoppiate a Istanbul e diffusesi in tutte le principali città del Paese rappresentano la reazione di una parte del popolo turco che ha in uggia l'atteggiamento del governo in politica e la "presa sui costumi" nella società. Certo, il progetto di radere al suolo Gezi Park e di costruirci un centro commerciale (come se non ce ne fossero già tanti) solleva questioni di carattere ambientale, ma è un pretesto per porre la questione dei diritti e delle libertà culturali.
Io credo che per quanto dura sia stata la repressione (che i miei amici in Turchia mi confermano essere terminata, almeno a Istanbul), essa si configuri nulla più che come un atto di imperio di un politico populista e con tratti autoritari in cerca di consenso. Erdogan vuole lasciare un segno della sua rulership. Ma niente di più. Gli slogan e i provvedimenti in campo culturale e religioso fanno parte dell'agenda politica del governo. Non credo esista alcun tipo di progetto di istituire una teocrazia nel Paese che, per quanto conservatore e tradizionalista, resta comunque profondamente laico. Le proteste di piazza sono un evento affatto diverso da quello che vediamo in Val di Susa in cui gruppi di delinquenti organizzati impediscono la realizzazione di un'opera votata a maggioranza con metodo democratico. Lungi da me il paragonare la protesta pacifica in Turchia con la violenza organizzata e squadrista in Val di Susa. Ciononostante credo che si tratti niente più che di un fenomeno riconducibile ad un profondo cleavage che attraversa la società turca e con cui le forze politiche e la società civile si trovano ormai a dover fare i conti. Così come me in Italia esistono quelli fra laici e cattolici, fra berlusconiani e comunisti, fra nord e sud, ecc. Ma l'idea di Primavera araba, evocatrice di guerre civili, di dittature sanguinarie o di progetti teocratici non ha niente a che vedere con la democratica Turchia.Alberto Gasparetto