Lance Armstrong ospite di Oprah Winfrey (gossipcop.com)
“I have never doped”, “non mi sono mai dopato”. Lance Armstrong per molti anni ha voluto rispedire al mittente ogni accusa di pratiche illecite volte a migliorare le sue prestazioni sportive. Mulinare di gambe, capacità di polmoni e brillante tattica avevano fatto di lui uno dei più grande ciclisti della storia. Un fenomeno in grado di vincere sette Tour de France consecutivi dal 1999 al 2005, primo e unico nella storia a compiere una simile impresa.
A un certo punto, però, la bolla è scoppiata. O, meglio, lo stesso Armstrong ha confessato la balla alla conduttrice di pop-show più famosa d’America, Oprah Winfrey. Un’intervista fiume di ben tre ore che la Winfrey ha deciso di mandare in onda in due puntate separate. Quella che sembrava una bellissima storia di sport e di tenancia umana (Armstrong durante la propria carriera ha affrontato e sconfitto un cancro) si è rivelata una colossale farsa: “Ho preso Epo e sostanze proibite negli anni Novanta e fino al 2005. Senza doping non si vincono 7 Tour. Questa storia era perfetta per così tanto tempo: battuto il cancro, vinto tutto, un matrimonio perfetto. Ma non era vero“. But it wasn’t true.
Aldilà di moralismi e condanne, che quando si tratta di doping hanno in ogni caso un più che legittimo diritto di essere sollevati, la riflessione da fare – in onore al nostro Aristotele – è forse un’altra: che cos’è questa “verità” di cui Lance Armostrong parla? La vittoria come imperativo categorico dell’atleta riesce davvero a far passare in secondo piano ogni aspetto etico e morale? L’ebrezza del successo, del far transitare la tua ruota per prima sulla linea del traguardo, cancella ogni scrupolo o considerazione? Evidentemente sì, ed è con questo fatto che bisogna fare i conti. Non col precetto morale che “barare è sbagliato”. Come tutti i divieti, veicola con sé il fascino della trasgressione e della violazione. Per salvare davvero l’anima e il candore dei giovani ciclisti che vedono cadere nel fango un’icona e un idolo come Armstrong bisogna spostare l’analisi su un piano superiore: assaporare l’estasi del trionfo momentaneo ed essere acclamato come “il migliore” riveste di gran lunga un fascino infinitamente superiore all’essere un anonimo ma onesto “gregario”.
E’ come se ci fosse, idealmente, un “prima” e un “doping”. Il prima è quello stato ipotetico in cui un atleta, magari un giovane Armstrong, crede di poter farcela solamente grazie alle proprie forze e al proprio talento. In seguito l’ingresso nel mondo dei “grandi” e delle grandi corse a tappe ti apre scenari e realtà (forse) nuovi: esistono tecniche e sostanze illecite che migliorano le tue prestazioni. Nell’ambiente, probabilmente, si saprà e si vedrà chi è che “va di più” non solo per meriti intrinseci. E a quel punto scatta nella testa un meccanismo (certamente sbagliato, ma umanissimo) per cui ci si dice: “perché no?”, convinti che quello del doping sia un vero e proprio sistema generalizzato e che dunque è solo per “lottare ad armi pari“. La lotta però, col doping di mezzo, non sarà mai ad armi pari tra sostanze stimolanti, sostanze coprenti e diavolerie d’ogni sorta messe a disposizioni da medici e ricercatori iperspecializzati. Oltre che dalla dubbia etica professionale: doparsi non è come prendere un’aspirina. Doparsi può fare male alla salute, a medio e lungo termine ma anche all’istante: ne sa qualcosa il ciclista italiano Riccardo Riccò, che anni fa rischiò la vita per un’autoemotrasfusione. Per questo suonano un tantino ridicole le proposte non troppo sarcastiche di quanti vogliono una liberalizzazione totale del doping: “fatevi quanto vi pare, e che vinca il milgiore”. Se pratiche del genere sono spesso criticate anche quando destinate ai cavalli da corsa – anche nell’ippica il doping è infatti diffusissimo – sarebbe quantomeno curioso lasciarle fare a esseri umani che pedalano. Non più sport ma un buffo concorso di biotecnologia medica.
A rileggere le classifiche ricorrette alla luce degli scandali dei Tour de France da fine anni ’90 al 2010 viene quasi da ridere. Tra asterischi, parentesi e indici sembra una espressione algebrica piuttosto che l’ordine di arrivo finale della più famosa gara di ciclismo a tappe del mondo. E Lance Armstrong, colui che per sette volte di fila è arrivato primo grazie al doping, è stato cancellato dall’elenco.
Ne valeva davvero la pena, Lance?