di Giulia Annovi
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“Io sono diviso in due metà. Una è quella della fabbrica: sono un tecnico, un chimico. Un’altra, invece, è totalmente distaccata dalla prima ed è quella nella quale scrivo, rispondo alle interviste, lavoro sulle mie esperienze passate e presenti. Sono proprio due mezzi cervelli. E’ una spaccatura paranoica…”
Durante queste vacanze di Natale sono rientrata nel castello della mia città per respirare un po’ di storia: evento raro nella mia terra colpita dal terremoto. Sono tornata all’interno del Museo del Deportato, un sito dedicato alle storie di ebrei uccisi dai nazisti, un luogo dove riecheggiano le parole di persone che, malgrado le circostanze, non avevano perso la loro dignità di uomini.
All’interno del museo è stata allestita una mostra dedicata a Primo Levi. Quello che veramente colpisce dell’esposizione non è tanto la vicenda nota della vita dello scrittore, chimico, amante della montagna e deportato ebreo. E’ molto più interessante osservare quanto questi aspetti della sua vita e personalità abbiano influito sulla sua opera.
Primo Levi viene presentato come “un uomo pubblico dai molti ruoli”: opinionista, drammaturgo, scrittore e uomo attento agli strumenti di comunicazione di massa. Ma anche come chimico, che per lui non è soltanto un mestiere, ma una “maniera di vedere e di trovare un posto nel mondo”. La chimica che dà a Levi un atteggiamento mentale, un’abitudine alla precisione e un metodo per leggere il mondo, tanto influenzerà la sua scrittura. Lui stesso diceva che i suoi studi di chimica erano costituiti da “notizie chiare, precise, controllabili, senza parole inutili, espresse in un linguaggio che mi piaceva straordinariamente anche dal punto di vista letterario, un linguaggio definito, essenziale”.
Lo stile preciso e conciso che caratterizza la sua scrittura traduce la convinzione che si scriva per comunicare: “precisione” e “minimo ingombro” permettono che ogni parola vada a segno e che il messaggio non si perda nel rumore di fondo della comunicazione (Dello scrivere oscuro, La stampa, 11 dicembre 1976). “Scrivere” è per Levi “un modo di mettere ordine in un mondo caotico” per spiegare a se stesso e agli altri.
Tuttavia, è comunque riduttivo spiegare la scrittura di Levi alla sola ricerca di semplicità e chiarezza propri di uno scienziato: le sue continue metafore rendono conto di un pensiero profondo che senza sosta si interroga della violenza subita ad Auschwitz.
“Sono un uomo normale di buona memoria che è incappato in un vortice, che ne è uscito più per fortuna che per virtù e che da allora conserva una certa curiosità per i vortici, grandi e piccoli, metaforici e materiali”.