A me piace il caffellatte. La mattina presto me lo sorseggio mentre guardo dalla finestra della cucina il cortile dove dorme la mia bici. Guardo il cielo, apro la finestra e annuso l'aria. Queste sono le mie previsioni del tempo. Vengo dal mare, mi fido dei miei occhi, della mia pelle e del mio nasone. E quasi sempre ci azzecco. Tranne quella volta in estate, quando non mi accorsi di un temporale in arrivo e innaffiai abbondantemente le piante che abitano i miei balconi. Posai l'innaffiatoio e partirono i tuoni. Le mie donne ridono ancora. Lupo di mare spelato. Capita. Poi il caffellatte mi piace perchè mi ricorda la mia infanzia e la vecchia auto di mio padre, una Prinz NSU 4 color caffellatte pallido, a quei tempi una astronave per me. Mi ricordo anche la Prinz verde petrolio (ma il petrolio è verde?) che portava sfiga al liceo. Accanto al mio liceo c'era un convento di suore, non ricordo (se mai l'ho saputo) di che ordine, congregazione o squadra, ma ricordo che avevano questi lunghi veli scuri e il viso incorniciato di bianco. Anche le suore non portavano bene. La Prinz verde era loro e noi la vedevamo passare davanti al portone del liceo imbottita di veli scuri e anime candide. Pessimo presagio nei giorni di compito in classe di matematica o latino. Mi sono sempre chiesto se ce ne fossero ancora in giro. Di Prinz intendo, non di suore. Sono anni che non ne vedo una. Sino a ieri mattina alle sette. Ero fermo ad un semaforo in sella alla mia bici nera. Con una mano mi sono appoggiato all'asta del semaforo e mi guardavo intorno: accanto a me due vecchiette sottobraccio. Guardo meglio con la coda dell'occhio e mi accorgo che sono madre e figlia, una di ottanta anni, l'altra una ragazzina di sessanta, stesso cappotto color pastello indefinito, stessa altezza, stesso viso, rughe diverse. Dalla parte opposta arriva un geometra che conosco, borsa scura e sciarpa rossa intorno al collo. Gli si affianca una ragazzina di quindici, sedici anni che fuma una sigaretta nell'aria gelida. La sigaretta ritmicamente si avvicina e si allontana da una fessura del suo giubbotto bianco dove intuisco ci sia la bocca. Vedo il disgusto affiorare sulla faccia del geometra. Non so se dipenda dal fumo della sigaretta o dal fatto che la fumi una ragazzina o che la fumi alle sette del mattino. Per non sbagliare a me darebbero fastidio tutte e tre le opzioni. Restiamo lì,sospesi, in attesa per venti, trenta secondi poi, tra me e il geometra con ragazzina fumante, si insinua lenta e rumorosa una macchia, una macchia color caffellatte. La seguo con gli occhi verso sinistra e guardo la targa vecchia, nera con lettere bianche per la provincia e numeri bianchi un pò sbiaditi: 13, 23, 53 e mi ricordo improvvisamente che, guardando le targhe delle auto, io bambino, avevo imparato numeri e lettere e mi accorgo che quella macchia caffèllatte è una Prinz. E' una Prinz?! Non ci credo. Resto fermo appoggiato al semaforo e non ci credo, anche se la vedo allontanarsi lentamente e rumorosamente. E' una Prinz caffellatte come quella di mio padre.
Scatta il verde per pedoni e ciclisti. Mentre attraverso guardo in lontananza la scia bianca che lascia la Prinz, troppa scia, troppo bianca. "Buongiorno!" . E' il geometra che mi incrocia in mezzo al guado. "Giorno" rispondo in automatico, ma negli occhi ho solo lei, l'auto caffellatte. Deciso, la seguo, è lenta, voglio vedere chi la guida. Decisione irrazionale. Decisione vera. La mia bici mi asseconda atleticamentte e scarta a sinistra come un vero puledro e in cinque secondi mi ritrovo sulla scia della Prinz senza che nessuna auto mi abbia tritato. La Prinz avanza lenta, scommetto con me stesso che la raggiungerò in due minuti scarsi. Allora una voce adulta mi rimprovera dentro."Cretino, non è l'auto di tuo padre, non la guida tuo padre, tuo padre è morto, cretino! Cosa ti aspetti di trovare un suo sosia con la faccia da ebreo errante? O pensi che ti appaia per darti i numeri vinnceti? Cretino masochista!". Rallento la pedalata. Poi il bambino che vive in me se ne frega e riaccellera. Papà mi manca. Non come un padre manca ad un figlio, ma come un figlio manca ad un padre. Ricordo uno degli ultimi saluti, un abbraccio. Il gigante dei miei anni sotto il metro era diventato un uomo piccolo, mentre io crescevo con il torace e le braccia, e a volte la testa, di un gorilla, regalo del DNA della famiglia materna. L'uomo, le cui braccia mi circondavano una volta, era, infine, nel recinto delle mie, indifeso e fiero. Ora inseguivo una Prinz sperando di vedere un viso come il suo. Sono follie che si possono compiere impunemente solo alle sette del mattino, mentre il mondo è distratto o corre o sta ancora dormendo. La Prinz era a 50 metri davanti a me, ma io vedevo chiaramente solo la scia bianca che lasciava. Dopo qualche secondo la scia bianca si è spostata a sinistra e si è fermata improvvisamente accanto al marciapiede. Io mi sono accostato a una ventina di metri di distanza, appoggiato al tronco di un ippocastano ad osservare la scena sentendomi, per l'ennesima volta, stupido. Vedo un giubbotto fucsia uscire dall'auto. Nel giubbotto vedo un ragazzino basso di statura, dai capelli nerissimi e lucidi e dalla pelle olivastra. Vedo le sue braccia alzarsi verso il cielo a chiedere aiuto, lo vedo parlare con qualche dio o insultarlo. Si appoggia al tettuccio caffellatte dell'auto con le braccia e il suo viso sparisce tra due nuvole fucsia. Smonto dalla bici e mi avvicino lento. Il motore dell'auto è spento. Il ragazzino si riprende e cerca di aprire il cofano dell'auto. Quello anteriore. Peccato che la Prinz abbia il motore posteriore. Raffreddato ad aria. Quasi indistruttibile. Mio padre ci viaggiava in mezz'Italia. Diceva che i tedeschi avevano riutilizzato i motori delle autoblindo della Seconda Guerra Monondiale per le Prinz. Io lo guardavo con occhi sgranati e pensavo di essere uno dei miei soldatini di plastica in scala HO dentro un carrarmato...
Anche allora esistevano le leggende metropolitane, fatto sta che non ricordo di aver mai visto la mia Prinz in panne. Ora ne vedevo una con un ragazzino disperato accanto. Lo vedo che guarda sconcertato il cofano vuoto. Mi avvicino. "Guarda che il motore è dietro...".
Mi guarda. Non è un ragazzino, è un uomo tra i trenta e i quaranta con dei baffetti radi. Mi sorride imbarazzato e vedo che gli manca un incisivo. E' uno di quelli che si vedono nei ristoranti dietro un mazzo di rose rigide, tutti più o meno simili, stesso sorriso, stesso colore, stessi capelli, forse stesse rose. L'uomo con i baffetti si sposta rapido nella parte posteriore dell'auto, armeggia qualche secondo con il cofano del vano motore che non riesce ad aprire. Io appoggio la mia bici ad un palo e lo aiuto. Apriamo insieme il cofano e una nuvola di vapore bianco ci investe. Il motore è una massa scura e puzzolente di olio. Vedo i cavi della batteria, li vedo entrare nel blocco motore, ma non capisco niente altro, e non sono il solo. L'uomo con i baffetti si è portato le mani alle guance in segno di disperazione. Ha dita tozze e unghia molto lunghe e giallastre.
"Come faccio adesso...come faccio?"
Gli è uscita una voce cantilenante e un pò gutturale, una voce da sconfitto.
Non so perchè glielo chiedo. "Cosa devi fare?"
Gli do del tu proprio io che sono allergico al tu. Mi è rimasta negli occhi la prima impressione di un ragazzino in difficoltà. Mento a me stesso. La verità è che mi sento superiore ed accondiscendente. E non provo neanche a correggermi.
Lui mi guarda come se mi vedesse per la prima volta. Anche la sclera dei suoi occhi è giallastra.
"La macchina non è mia...vengo da Pavia...devo andare in un ristorante per lavorare ...qui a Novara...in un ristorante...alle sette e mezza...comincio oggi...la macchina è del Signor Alberto...il mio padrone di casa...me l'ha prestata..."
Ha pronunciato il nome del suo padrone di casa con affetto, il resto con disperazione.
"Dov'è il ristorante?"
Mi guarda con un misto di sospetto e speranza, una parte del suo cuore crede nei miracoli.
Mi dice il nome del ristorante. E' appena fuori Novara, dalla parte opposta della città però. A quest'ora ci si arriva in venti minuti con l'auto. A piedi in un'ora, un'ora e mezza.
Lo guardo e glielo chiedo senza rendermene conto:"Sai andare in bici?"
Il suo sguardo è stupito, ma forse comincia a capire. "Si, si...".
Tiro fuori dalla tasca del cappotto il mio mazzo di chiavi e comincio a sfilare la chiave del catenaccio della mia bici. Gliela allungo e tiro fuori il mio portafogli da cui estraggo, come un prestigiatore, il mio biglietto da visita.
"Qui c'è il numero del mio cellulare. Quella è la mia bici. Quando finisci di lavorare chiamami per riportarmi la bici ".
Non so neanche io perchè lo sto facendo. La bici non è come una moto o un'auto, non è un prolungamento del mio pene, un affermazione del mio io. E' solo una compagna, una estensione della mia anima, e come essa può essere graffiata, ammaccata, può arrugginire, può essere rubata, ma non essere distrutta. Alle sette di mattina la stavo prestando, la stavo mettendo nelle mani di un perfetto sconosciuto che poteva avermi raccontato solo un sacco di cazzate. L'auto potreva essere rubata e io sono troppo sentimentale: chi guida una Prinz deve essere per forza una brava persona, come mio padre. L'uomo con i baffetti prende la chiave e il biglietto, se li infila in tasca ed esita un attimo nel prendere la bici appoggiata al palo. La prendo io e abbasso il sellino.
"Prendi la prima a destra e alla rotonda prendi la seconda uscita, poi sempre dritto".
Lui mi guarda con il manubrio della mia bici tra le sue mani.
"E la macchina?"
"Conosco un meccanico che può darci una occhiata..."
Mi allunga lentamente la chiave dell'auto. La riconosco. E' una inconfondibile chiave da Prinz. La prendo con delicatezza, come se il metallo potesse spezzarsi o peggio sciogliersi nelle mie mani. Abbasso la chiave per metterla in tasca e dietro di essa mi appaiono gli occhi dell'uomo con i baffetti. Ci guardiamo dalle sponde opposte del mondo.
"Mi chiamo Amrit" mi dice. "Io Bartolomeo" gli rispondo. Mi sorride e inforca la bici. Le prime due pedalate sono incerte. Sento una fitta al cuore. Poi Amrit si sistema meglio sul sellino e parte spedito. Si volta un attimo e mi saluta con la mano.
Eccomi qui alle sette e dieci di una mattinata fredda con in tasca le chiavi dell'auto della mia infanzia e un vuoto tra le cosce. La mia bici mi manca già. Tiro fuori la chiave della Prinz, leggera come una piuma e la lancio in aria come una moneta. Nè testa, nè croce. Mi incammino cosi verso il mio meccanico di fiducia. In realta il mio meccanico di fiducia lavora per il padrone di un autorimessa. E' un meccanico bravo e abbastanza vecchio da ricordarsi come è fatta una Prinz. Il suo datore di lavoro è un altro simpatico meccanico, spesso fiscalmente neutro. Si fa pagare quasi sempre in contanti, odia carte di credito e bancomat. Sarà allergico alla plastica. Non a quella che sua moglie si è fatta impiantare sotto gli zigomi. Ma io non cerco lui, cerco il vecchio Giuliano.
Entro nel grande garage che puzza di olio per motori. Mi si fa incontro il titolare con una tuta grigia senza una macchia e l'espressione interrogativa. Chiedo di Giuliano. Senza parlare mi indica il fondo del garage. In uno stanzino puzzolente trovo Giuliano nella sua tuta blu, sporca di olio e di tutti i fluidi vitali di un'auto.
Sente i miei passi e alza la testa dal pezzo meccanico che stà smontando appoggiato ad un tavolaccio. Ho la luce alle spalle, non mi riconosce.
"Buongiorno Giuliano, come va?"
Riconosce la voce e mi sorride,. Siamo andati sempre d'accordo: è un uomo per bene e di buon senso e un eccellente meccanico, un gran lavoratore, anche perchè ha sempre fatto solo quella dall'età di tredici anni.
"Ah, dottore...buongiorno...e che le devo dire? Alla mia età...è già tanto se respiro... "
Vanità maschile. Vorrei invecchiare io come lui, è ancora lucido e forte come un toro anche se si avvicina ai settanta, non è un tipo da nipotini, che non ha, nè da molliche ai piccioni al parco.
"Senta Giuliano...ho questa auto con un problema, ferma qui vicino...". Estraggo la chiave dalla tasca e gliela allungo. Prima di afferrarla Giuliano si pulisce la mano sulla tuta, l'afferra e la osserva come se fosse un gioiello. "Ma è una Prinz! Ma come..."
"Una lunga storia Giuliano...mi ci può dare una occhiata?"
Il suo sguardo si illumina. "Subito dottore... subito...prendo gli attrezzi!". In venti secondi stiamo già uscendo dal garage a passo spedito. Il padrone del garage ci vede uscire e ci viene dietro.
"Giuliano! Giuliano! Dove vai?"
Giuliano non si volta nemmeno. "Ho da fare...".
Il meccanico con la tuta immacolata e i contanti in tasca resta sull'uscio del garage mentre noi giriamo l'angolo. Andiamo a trovare una vecchia signora malata. E' un atto di carità cristiana. Chi può criticarci?
Arriviamo all'auto in pochi minuti e lì perdo Giuliano. Appena vede la Prinz caffellatte sorride come se avesse visto una sua vecchia fiamma e improvvisamente capisco che il mio meccanico è completamente affascinato. Prende la chiave, apre la porta e prova a mettere in moto. Niente. Esce e da un'occhiata al motore. Vi immerge le mani come un chirurgo nell'addome di un malato. Scuote la testa, poi sorride, poi sbuffa, parla da solo, si lamenta con qualcuno di invisibile, poi sorride di nuovo...io lo osservo e ho continuato ad osservarlo in silenzio per un'ora, saltellando da un piede all'altro per riscaldarmi. Il mio cellulare ha squillato una decina di volte. Ho dovuto inventare dieci diverse balle coerenti. Molta fatica. Alla fine la Prinz è tornata in vita con un forte colpo di tosse. Giuliano sorrideva beato.
"Grazie Giuliano. Quanto le devo?"
"Niente dottore, niente...è stato un piacere..."
Sorrido anche adesso a ripensare alla sua faccia contenta e un pò malinconica. Sorrido e guardo fuori dalla finestra della mia cucina. La mia bici dorme sotto la tettoia, giù in cortile.