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Prison Break: una Fuga Senza Lieto Fine

Creato il 06 ottobre 2011 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Prison Break: una Fuga Senza Lieto FineSe ci accingessimo a compiere una panoramica sui serial statunitensi, sarebbe lapalissiano dire che bisogna tracciare una linea di demarcazione netta fra due categorie ben distinte. Da un lato troviamo telefilm di grandissimo successo, che hanno mantenuto inalterata la propria coerenza e “dignità” narrativa, senza scadere di qualità, fino all’ultimo episodio: fra questi possiamo sicuramente annoverare due serie della HBO come I Soprano (The Sopranos, 1999-2007), di cui abbiamo già trattato in un articolo precedente, e Six Feet Under (2001-2005); e la migliore creazione in assoluto di J.J. Abrams, ideata assieme a Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, vale a dire Lost (2004-2010). Dall’altro lato, invece, ci troviamo di fronte a serie che, esplose con un enorme successo, hanno costruito storie eccellenti, emozionanti ed avvincenti nelle prime stagioni, per poi capitolare progressivamente, come Streghe (Charmed, 1998-2006) di Constance M. Burge, o collassare di colpo nell’ultima stagione come Alias (2001-2006) sempre di J.J. Abrams.

Prison Break: una Fuga Senza Lieto Fine

Dopo quest’ampia premessa, possiamo affermare l’affinità all’ultimo caso elencato della serie televisiva che analizziamo in quest’articolo: Prison Break (2005-2009). Ideata da Paul Scheuring, sceneggiatore de Il risolutore (A Man Apart, 2003) e regista di The Experiment (2010), può essere considerata un ottimo cocktail di azione e thriller, ed è strutturata in 4 stagioni, per un totale di 81 episodi. E già dal primo è notevole la carica di suspense regalata agli spettatori, fra colpi di scena improvvisi, personaggi ambigui e misteriosi, e, soprattutto, intrighi fantapolitici che “colorano” l’intreccio della serie coinvolgendo governo americano, lobby, servizi segreti e quant’altro. Dagli spazi angusti e claustrofobici di una cella alla totale alienazione di diroccati paesaggi messicani e panamensi, le location sono uno dei fiori all’occhiello, sempre adatte a rappresentare perfettamente la frustrazione della detenzione o l’incertezza della fuga verso l’ignoto.

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A rappresentare, “in carne ed ossa” questo coinvolgente groviglio di vicende sono due fratelli, la premiata ditta Scofield-Burrows (interpretati rispettivamente da Wentworth Miller e Dominic Purcell), paladini/vittime di complotti e sistemi criminali a prima vista insormontabili. Inutile dire che chiunque assisterà alla visione non potrà non “tifare” per la loro rivincita, fino all’ultimo frame della serie. Attorno a loro si muovono personaggi complessi che, anche se talvolta cadono nello stereotipo, lo fanno però sempre con freschezza. Come non ricordare vere e proprie “caricature” come Theodore “T-Bag” Bagwell, Charles “Haywire” Patoshik o Fernando Sucre, solo per citarne qualcuno. Alcuni personaggi molto ben riusciti, come Alexander Mahone, si alternano ad altri, invece, meno felicemente caratterizzati, come Gretchen Morgan. Fino a qui i lati positivi della serie, ben fatta e coerente, per almeno tre quarti del suo sviluppo totale.

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Infatti, il declino abissale ed inspiegabile avviene dopo la fine della terza stagione, che già comunque presentava qualche difetto rispetto alle prime due serie, davvero impeccabili. L’introduzione di personaggi inutili, scontati ed impalpabili (vedi alla voce Donald “Don” Self) accompagnata da un intreccio diventato logoro e ripetitivo, privo di fantasia, sono solo le pecche più evidenti dell’ultima stagione. Se poi dovessimo considerare anche elementi improbi come il “riciclaggio” immotivato di alcuni personaggi, soluzioni alquanto discutibili e “redenzioni” decisamente improbabili, sarebbe scontato dire che il livello toccato in queste ultime battute risulta infimo. Ed è un vero peccato, aver rovinato una serie di così buon livello in un modo così nefando. Ciliegina sulla torta l’orrendo episodio conclusivo, solo in parte migliorato da Prison Break: The Final Break (2009), film per la tv che chiude definitivamente la vicenda.

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Dunque, il nostro è un giudizio inevitabilmente dolce-amaro. La visione della serie è consigliata; ma prendete il tutto con le molle, altrimenti il rischio è di rimanere delusi, e in modo cocente, da una conclusione decisamente non all’altezza di ciò che l’ha preceduta.


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