La premessa di Prisoners è una domanda cui nessuno vorrebbe rispondere: cosa faresti se tuo figlio sparisse? È proprio quello che succede alle famiglie Dover e Birch dopo pochi minuti di proiezione. Dopo il pranzo del ringraziamento, le loro due piccole figlie escono di casa per giocare ma nessuno riesce più a ritrovarle. Keller Dover (Hugh Jackman) e Franklin Birch (Terrence Howard) riescono a sopportare il dolore ragionevolmente solo per poco tempo, finchè il detective Loki (Jake Gyllenhall) non ferma un sospettato, Alex (Paul Dano). In questo momento comincia l’incubo in cui vittime e seviziatori si rincorrono e si scambiano i ruoli, accompagnando l’evoluzione ragionevole e sorprendente dei personaggi fino alla scena finale. Un’altra domanda, cui buona parte del pubblico medio non cinefilo non vuole rispondere o che non si pone nemmeno, è questa: voglio concedere a un film due ore e mezzo per convincermi?
Prisoners, in 155 minuti, riesce a convincere nonostante quache calo di tensione, qualche momento morto di troppo e qualche battuta infelice, ma non spreca e non si dimentica di nessuno degli elementi che ci mette davanti agli occhi in ordine sparso e apparentemente senza un motivo: un fischietto, un medaglione, un labirinto – ma non stiamo parlando di Indiana Jones. Ci vuole solo pazienza per arrivare fino in fondo e capire che la storia c’è, è ben sviluppata (forse sarebbe parsa ancora migliore in lingua originale) e che i personaggi non cadono nel tranello dell’essere troppo buoni o troppo cattivi, perchè molti di loro (Keller più degli altri) sperimentano più prospettive di una tragedia: vittima, spettatore, carnefice, rimanendo generalmente sempre credibili. Il ritmo della sceneggiatura, lento e costante per la maggior parte del film, centellina informazioni poco alla volta e accelera nell’ultima parte, quando sia Keller che Loki si rendono conto di una verità fondamentale e diversa per ciascuno di loro. Sarà d’aiuto per ritrovare entrambe le bambine, ancora vive?
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Paolo Ottomano
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