Qualche tempo fa in questi spazi è stato pubblicato un pezzo dal titolo “Essere Online Vs Essere Parte della Rete” in risposta a un articolo di Severgnini critico nei confronti dei commenti agli articoli sul Corriere online.
[Se hai perso la cronologia della vicenda puoi partire dall’articolo di Mashable, ripreso da un pezzo di Severgnini al quale hanno fatto seguito le risposte dialettiche e interlocutorie di Mantellini su IlPost e Datamediahub].
Ho letto questi interventi tenendo sullo sfondo una recente riflessione di Federico Badaloni sul tema dell’interazione tra cultura e tecnologia. Secondo Badaloni la tecnologia è “la risposta a bisogni identificati da una cultura e si occupa di trovare le soluzioni”. L’applicazione di questa regola al caso sollevato da Severgnini si traduce affermando che la tecnologia ha reso possibile un nuovo format editoriale: l’articolo commentato e partecipato, trasformato in piattaforma di conversazione tra lettore e giornalista.
Ma qual è il bisogno che dovrebbe aver attivato questa tecnologia? E’ un bisogno del giornalista? Del lettore? Della testata? E’ un bisogno presente nella nostra cultura?
Sono d’accordo con Severgnini: i commenti agli articoli sono raramente utili e spesso dannosi. Dal punto di vista editoriale la funzionalità dei commenti è un flop. Non funziona, costa e non rende. Tutte le cose che non funzionano perché non rispondono a un bisogno, prima o poi spariscono. Soprattutto se costano più di quanto rendono.
Non parlo, ovviamente, della possibilità di esprimere un’opinione o un commento sulla Rete. Ci sono ambienti nei quali l’espressione di un feedback più o meno strutturato è la risorsa fondamentale per la costruzione di un servizio e dà origine a soluzioni favolose: tutti i sistemi di review e rating di prodotti e servizi, le community tematiche, gli ambienti di collaborazione diffusa, l’intrattenimento e le relazioni sui social. Qui la tecnologia risolve dei bisogni precisi e, infatti, ha trasformato la nostra cultura.
Parlo invece dei commenti agli articoli sulle testate d’informazione e offro il mio ragionamento su tre direttrici: la quantità, la qualità dei commenti e la mancata promessa della partecipazione.
La quantità dei commenti
La regola empirica parla di un generatore di contenuto online ogni 100 fruitori. Nel caso dei commenti agli articoli, una mia stima indica la media di un commento al giorno ogni diecimila lettori. Si deve concludere che un commento è letto da un lettore ogni 100. Dal punto di vista del marketing del prodotto editoriale, che senso ha mantenere in piedi un sistema che soddisfa (forse) l’1 per cento degli utenti? Non vorrai mica convincermi che grazie ai commenti aumentano i lettori, il tempo speso sulla pagina, le condivisioni sui social. Io non ho mai conosciuto un lettore che va a leggere un articolo online per leggerne i commenti.
Quindi, i commenti non rispondono ai bisogni della testata.
La qualità editoriale (i commenti si scrivono, le opinioni si leggono)
I commenti non rispondono al bisogno dei lettori di esprimere un’opinione.
Da che il Web è social non si è mai visto un commento diventare opinione. Chi ha un’opinione non scrive un commento, scrive un articolo. Come faccio io ora. E chi ha tanta passione e tante opinioni non scrive commenti qua e là ma apre un blog o finisce per fare il giornalista su qualche testata. Cioè, costruisce il proprio stile editoriale e offre una visione del mondo a chi la cerca. Legge i fatti nella cultura del proprio tempo, o in una delle tante, e trova i lettori che cercano proprio questo tipo di mediazione e di spiegazione della realtà.
Il bisogno di esprimere una valutazione sintetica può essere soddisfatto in modi diversi, più sintetici e immediati e, in questo modo, più aperti al contributo di tutti. E’ ciò che si è verificato con la prassi della condivisione dell’articolo sui social, spesso non associata ad alcun commento, e con la possibilità di esprimere un rating di valutazione dell’articolo in una semplice scala in cinque step.
La promessa mancata
I commenti potrebbero allora rispondere ai bisogni dell’autore dell’articolo. Avere un ambiente di discussione è un’opportunità per gli autori perché consente di mantenere il contatto coi lettori e la loro sensibilità sui temi trattati. In linea di principio questo è molto utile e nobile ma nella pratica di questi anni non si è realizzato. Almeno non nelle testate generaliste e popolari.
Lo dico con amarezza: è un peccato perché sarebbe stato bello. Pensa, una Rete in cui le persone leggono, approfondiscono, discutono per aiutarsi a capire; una Rete in cui i giornalisti diventano le voci della coscienza civica raccogliendone le istanze e le riflessioni nel rispetto delle opinioni diverse. Una Rete, insomma, in cui matura la sensibilità democratica.
Nel caso dei commenti non è andata così. La funzionalità del commento è come la carta moschicida, attrae solo una certa specie di lettori, e favorisce alcune componenti della dinamica di partecipazione, generalmente non educata e non costruttiva. Spiace dirlo ma va detto in modo brutale, come scrive Severgnini: i giornalisti non possono essere i guardiani dello zoo dell’online ed è meglio per loro spendere tempo per studiare, verificare e imparare, che per dialogare con persone che non rappresentano i lettori e hanno più tempo che argomenti da spendere quando scrivono i loro commenti.
Credo che sostenere la tesi della necessità di un giornale comunità o di una testata in cui i lettori partecipano alla linea editoriale sia una forzatura. Ci sono luoghi dell’online che nascono con una forte componente di partecipazione associata all’informazione ma non possiamo considerarli l’evoluzione dei giornali di carta. Una cosa sono i dibattiti e le assemblee a cui si partecipa, altra cosa è una conferenza a cui si va per ascoltare e imparare.
La Rete ha trasformato le dinamiche d’interazione ma non l’identità dei soggetti che la compongono. Io do credito a una testata che mi informa e mi fa riflettere. Voglio leggere i suoi articoli sapendo che li leggono altre migliaia di individui (per questo non mi piacciono gli algoritmi di personalizzazione). Se non sono d’accordo con le opinioni di una testata trovo molte altre occasioni per verificare e approfondire. Non è la funzionalità dei commenti a farmi sentire parte di una comunità o di un segmento socio-culturale: sono i valori, gli ideali e lo stile di analisi che trovo nella testata e nei suoi giornalisti.
Un elenco di tecnologie che hanno arricchito l’informazione online negli ultimi anni e che hanno dato risposta ad alcuni bisogni dei lettori, dei giornalisti o delle stesse testate editoriali.