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Prodigio (Racconto onirico - Fine)

Da Bruno Corino @CorinoBruno

Fussli, L'incubo
Incubi....
Il giorno dopo ci siamo alzati tardi, avevamo fatto quasi l’alba. Pioveva. Io mi ero alzato un po’ prima di Domenico ed ero in cucina a prepararmi un caffè. Mi sentivo un po’ stordito, forse avevo bevuto un po’ troppo o era quella pioggia martellante a darmi un senso di torpore. Ero immerso in questi pensieri, quando sentii suonare alla porta… Sulla soglia c’era un ragazzo tutto fradicio, che, balbettante, mi diceva ch’era un nipote di zio Giovanni, e che lo aveva mandato proprio lui perché mi voleva urgentemente parlare. Lo feci accomodare in cucina, la caffettiera stava già fumando, e cominciai a chiedergli il motivo di tutta quella fretta. L’idea di uscire sotto quel temporale, sinceramente non mi allettava; ma vedevo che il ragazzo era impaziente, e per quanti sforzi facesse di spiegarmi il motivo di quella urgenza, non era in grado di arrivare a una conclusione che avesse senso.
Sotto quella pioggia le mie scarpe, quando finirono nella prima pozzanghera, si gonfiarono d’acqua. Mentre il ragazzo camminava davanti a me, andai a finire sotto un fiotto d’acqua che scendeva da una grondaia rotta, e il cappotto nero finì con lo inzupparsi. Cominciavo persino a starnutire. Mi domandavo, mentre seguivo i passi bagnati di quel ragazzo, cosa avesse il vecchio da dirmi di così importante, come mi aveva continuamente ripetuto il nipote, tanto da far uscire me e quel povero ragazzo sotto la pioggia. Che sarà crollata la Cappella? Pensai, sorridendo. Oppure, aveva ripensato a quanto gli avevo detto quella sera? In effetti, da quell’ultima volta non l’avevo più rivisto. M’ero sì ripromesso di andare a scusarmi, ma non ne ebbi più occasione, e poi m’era completamente sfuggito di mente. Ma non credevo che una cosa accaduta il venerdì sera se ne fosse ricordato il lunedì mattina! Doveva trattarsi di qualcos’altro.
«Grazie, grazie, grazie… per essere venuto! Scusami se t’ho fatto chiamare con questa pioggia…» Mi diceva mentre mi stringeva la mano calorosamente, facendomi entrare in casa. L’avevo trovato sull’uscio, sotto la tettoia, che aspettava con impazienza il nostro arrivo. La sua faccia era stanca, come se il vecchio non fosse riuscito a riposare durante la notte, aveva due borse gonfie sotto gli occhi, e gli occhi avevano perso la vivacità dell’ultima sera, i capelli bianchi erano mal pettinati. Aveva un aspetto curvo, più del solito, come se all’improvviso si fosse piegato sotto il peso degli anni… «Presto, presto», diceva al nipote con un tono di voce imperioso, «avvicina la stufa… Cosa ti posso offrire? Un liquore, un bicchiere di vino, un caffè?». Mi chiedeva cambiando tono di voce. I miei abiti a contatto con il calore cominciarono a fumare. Mi aveva fatto accomodare in sala da pranzo, stavo con il gomito appoggiato sul tavolo, lui si era seduto di fronte: «Una tazza di caffè va bene…». Dissi, asciugandomi i capelli con dei fazzoletti di carta…
Il ragazzo corse in cucina a prepararlo. Guardavo le punte delle mie scarpe bagnate e aspettavo cosa il vecchio avesse da dirmi con tanta urgenza… capivo che lui stesse cercando le parole giuste per iniziare il discorso… ma non riusciva a trovarle, aveva un’espressione smarrita; ad un certo punto proruppe: «Sono due notti che non ho chiuso occhio…». «Soffri di insonnia?» Gli domandai accennando un lieve sorriso… «No», disse lui, usando di nuovo quel tono imperioso, «almeno non negli ultimi tempi…», aggiunse mitigando il tono, poi, sfregandosi il mento con la mano, disse con aria piagnucolante: «Faccio degli incubi che non mi fanno dormire…». «Che incubi?». «Orrendi…» Disse sempre più piagnucolante, coprendosi la faccia con le mani. Non sapevo come consolarlo e non capivo neanche perché m’avesse fatto chiamare: d’accordo, il vecchio aveva gli incubi, ma non mi sembrava una buona ragione per farmi correre sotto la pioggia. Feci un altro starnuto. Entrò il ragazzo con in mano un vassoio. Quando il nonno lo afferrò per un braccio, lui bruscamente si scostò, come se quel contatto gli provocasse un grande fastidio o disgusto. Il vecchio diede un’occhiata prima verso di me e poi guardò in tralice il ragazzo.
«Come ti chiami?» Chiesi al ragazzo. «Gi-gi-gi…» Il ragazzo si sforzava di pronunciare il nome. «Giovanni si chiama, si chiama Giovanni, come me…» Lo interruppe il nonno soprapponendo la sua voce: «Vai in cucina!» Gli ordinò il vecchio: «E non ti muovere finché non ti chiamo!». Dopo aver bevuto il caffè, gli chiesi se potevo accendermi una sigaretta. Il vecchio, quasi distrattamente, mi disse che non c’era problema… «Allora», gli domandai, mentre mi accendevo la sigaretta, «in che consistono questi incubi orrendi?». «Non so trovare le parole giuste per descriverli… ma sono due notti che appena sto per addormentarmi all’improvviso mi vedo comparire davanti delle figure incappucciate…». «In sogno…» Dissi io. «Sì», precisò l’altro mostrandosi sorpreso di quella interruzione, «in sogno…». Mi andava di dirgli, “sai con i tempi che corrono, meglio essere precisi”, ma mi astenni, non mi avrebbe capito. «E cosa fanno questi incappucciati?». «Si avvicinano minacciosi, mi circondano piano piano, io inciampo e cado a terra, e loro con gli indici puntati contro di me dicono in coro: “Morrai, morrai, morrai…”; io mi copro la faccia con un mantello e poi dalla paura mi sveglio, e non ho più il coraggio di addormentarmi; mi alzo e sto in piedi, tutta la notte, tutta la notte… capisci? Tutta la notte! E questo è successo per due notti di seguito…» Diceva il vecchio con un filo di voce disperato. «Ma, nel sogno, riesci a capire perché queste figure ce l’abbiano proprio con te?». Lui scuoteva la testa. Mi fissava: aveva due occhi impietriti, non credo di aver visto prima uno sguardo così terrorizzato, forse somigliava allo sguardo dei condannati a morte quando si trovano nelle mani del boia.
«Cosa posso fare io per te?» Chiesi a quel punto. Il vecchio continuava a fissarmi poi con un tono grave di voce disse: «Tu devi parlare con “loro”!». «Con loro chi?». «Tu devi parlare con gli incappucciati!». «Ma, caro zio Giovanni, non credo che mi sia possibile parlare con i tuoi incubi, che faccio telefono o scrivo loro un cartolina?». «Non scherzare», mi disse il vecchio, con voce minacciosa, «tu sai tutto… Quella sera uno di “loro” mi ha parlato per tuo mezzo… ricordi? Tu devi dire che mi lascino in pace… che io non ho fatto male a nessuno… glielo devi far sapere… a loro…». Ero stupito di come zio Giovanni avesse nel giro di pochi istanti cambiato tono di voce ed atteggiamento… vedevo un’altra persona di fronte a me, non mi sembrava più quella che tanto gentilmente mi aveva accolto sull’uscio di casa. Mi sembrava di avere di fronte una di quelle immagini che cambiano figura con un minimo spostamento di luce. E, infatti, se spostavo lievemente la luce lo sguardo zio Giovanni assumeva le sembianze del Procuratore Generale…
Provai un senso di sollievo non appena misi piede fuori da quella casa; nonostante che un vento impetuoso mi rovesciasse addosso secchiate d’acqua, contro le quali l’ombrello sbrindellato che stringevo tra le mani non riusciva a ripararmi, tant’è che bastarono due colpi di vento ben assestati ad aprirlo e piegarlo su stesso e a renderlo praticamente inservibile, provavo ugualmente un senso di sollievo. Indifferente a tutta quell’acqua che cadeva dal cielo, camminavo come in trance. Piano piano nella mia mente i tasselli si stavano ricomponendo, e ognuno andava al proprio posto. Anche se la configurazione del disegno cominciava a delinearsi con precisione, non riuscivo tuttavia a capire come quella configurazione fosse stata prodotta. Tirai fuori dalla tasca il pacchetto del professore, ormai inzuppato d’acqua, e lo buttai in un bidone della spazzatura insieme a quel manico d’ombrello che m’era rimasto in mano. E così, pensavo, la triade s’era ricomposta per portare a termine la loro vendetta: io, Cecilia e il professore, ognuno di noi siamo la proiezione vivente dell’altra storia. Strumenti inconsapevoli, credo. Cecilia non s’era neanche resa conto di esserlo; forse il professore, sì; la sua apparizione in campagna, quelle sigarette che contenevano chissà qual altra strana sostanza; «Continui, continui!», mi diceva; e quel povero vecchio terrorizzato dai suoi incubi. D’accordo, avrà pure le sue colpe, ma cos’ha da spartire con quel fungo velenoso? Perché sia toccato proprio a lui? E poi, perché tutto ciò accade qui, tra questi muri estranei, distanti? Perché Fiorenza, il frate, il maestro non si danno pace? Che senso ha far morire quel vecchio, spaventarlo in quel modo? E una volta che tutto sarà compiuto, il ciclo finirà o riprenderà altrove il suo corso in un altro luogo e in un’altra epoca?
Le domande mi martellavano la testa come la pioggia interrotta. Il cielo fu squarciato da un lampo, cui seguì un tuono così fragoroso, da far tremare l’intero paese. La morte… pensavo, alla morte vogliamo sempre dare un senso, e non ci rassegniamo ad accettarla per quella che è: e quanto più essa è assurda e insensata tanto più ci rifiutiamo di accettarla; tanto più non ha senso tanto più si carica di senso; come questi lampi e questi tuoni che si caricano di elettricità e poi all’improvviso fendono e squassano il cielo… così senza una ragione… Neanche “loro” vogliono rassegnarsi a morire, non accettano la loro morte assurda, insensata, per mano di un uomo o di un’istituzione che sosteneva di agire in nome di Dio, e continuano a tormentarci, e ci costringono a pensare a loro, ad essere come loro e ad agire per conto loro; perché la vera morte, la morte autentica, definitiva è l’essere dimenticati per sempre… finché il ciclo si ripete, finché il ciclo si rinnova saremo sempre costretti a non dimenticare… e quindi a non morire… Ero completamente fradicio. Di nuovo cominciavo a battere i denti, forse la febbre riprendeva; sì, avevo di nuovo la febbre… e cominciavo di nuovo a delirare…

Risvegli… Quando mi svegliai al mattino, mi trovai nel letto madido di sudore; però, nonostante avessi ancora la testa in disordine, pesante, mi sentivo meglio; non so come ma ricordavo soltanto che appena rientrato a casa fui di nuovo preso da un forte colpo di febbre. Fuori ancora pioveva, ma era una pioggerella piacevole. Quando mio fratello apparve sulla porta mi chiese: «Ah! Ti sei svegliato, finalmente! Come stai? È crollata la febbre?». «Bene, direi! Ho avuto di nuovo la febbre… ma ora credo che sia passata, mi sento meglio…». «E che febbre!» Esclamò, «abbiamo dovuto chiamare anche il medico di guardia!». «Davvero!» Dissi meravigliato: «Non ricordo nulla…». «Ci credo! Hai avuto una febbre fortissima, hai sfiorato anche i quarantuno… il medico ha detto che se stamattina non ti passava era necessario portarti al pronto soccorso! Comunque, meglio così; capirai, come avremmo fatto a trasportarti al pronto soccorso? T’ho preparato una tazza di tè…».
Lo ringraziai. Mentre sorbivo il tè, guardavo mio fratello che stava in piedi davanti a me, mi stavo chiedendo perché aveva quell’aria così tranquilla, quando sentimmo la voce di Armando chiamare. Domenico s’affrettò ad aprire. «Allora, come sta il malato?». Sentivo chiedere non appena entrò nella cucina vecchia sbattendo i piedi sul tappeto. «Pare che si sia ripreso!». «Meno male! Certo stanotte ce la siamo vista brutta; eh!». «Ecco qua l’ammalato…» Mi disse quando comparve davanti al letto. «Salve, credo che il peggio sia passato…». «Vuoi una tazza di caffè?». «Sì, grazie». «Allora vado su a prepararlo!». «Stanotte abbiamo dovuto chiamare la guardia medica…» Raccontava Armando quando restammo soli.
Io annuivo. Poi gli chiesi: «E Cecilia? È partita?». «Cecilia?», feci lui: «Quale Cecilia?». «L’amica di Francesca!». «L’amica di Francesca? Non credo che Francesca abbia un’amica con questo nome!». Io pensavo che Armando volesse scherzare. Sorrisi. «D’accordo, ti va di scherzare!». «Scherzare? Non ti capisco!» Diceva facendo vibrare le palpebre: «Ma ti senti bene?». Adesso la situazione si stava facendo davvero insostenibile. A quel punto non sapevo più cosa dire: «Scusami, hai dimenticato la cena dell’altra sera?». «La cena dell’altra sera? Quale cena? Se siete arrivati ieri sera e tu avevi un febbrone!». «Ma scusa oggi che giorno è?» Dissi a quel punto smarrito e preoccupato. «Venerdì!». «Venerdì! Ma siamo a martedì?». «Martedì?» Fece una smorfia eloquente: «Fra l’altro Francesca non è nemmeno al paese; è dal mese scorso che non torna. Adesso che arriva Domenico te lo faccio dire anche da lui, se non mi credi. La cena l’avrei sognata!».
Infatti, mentre prendevano il caffè, entrambi mi confermavano la stessa versione; mi dicevano che senza dubbio avevo immaginato questa famosa cena nel mio delirio. Ma i particolari, i dettagli erano così precisi… Bussarono di nuovo alla porta. Mio fratello andò ad aprire, mentre io restavo ancora spaesato in mezzo al letto. Era don Michele, il parroco. «Allora», disse il prete, «come sta il moribondo?». «Sei venuto a darmi l’estrema unzione?». Dissi io scherzando. Ma notai che tra i tre correvano occhiate di compatimento, come se volessero dire: “Sì, sta meglio, ma non si è completamente ristabilito, la febbre gli deve aver provocato qualche piccolo danno…”
«A proposito», disse don Michele facendosi di colpo serio: «Avete saputo la notizia? Stanotte è morto Zio Giovanni…». Sentii una fitta al cuore… come se qualcosa m’avesse all’improvviso trafitto… «So che eravate molto affezionati al vecchio…» Disse don Michele. «E come è successo?» Chiese mio fratello. «Stanotte… ha avuto un infarto… ma se ne sono accorti soltanto stamane… all’alba… il nipote l’ha trovato morto nel letto…». «Pace all’anima sua!», disse Armando: «Almeno non ha sofferto…». «Pace all’anima sua…» Ripeterono gli altri due.
Ci fu una pausa di silenzio. Poi mio fratello servì il caffè anche al prete. Mentre stava sorseggiando il suo caffè, chiesi a don Michele: «Don Michele, voi sapete cosa sono i sanbenitos?». «I sanbetitos», disse il prete soffiando nella tazza, «i sanbenitos erano quelle casacche gialle che mettevano agli eretici, se non sbaglio, ma se vuoi posso controllare… perché vuoi saperlo?».
«Niente, niente, era una semplice curiosità».

Angoscia… Al termine di questo resoconto, in questo momento, mentre scrivo, avverto una presenza invisibile e sconosciuta che si domanda: ma tutto ciò è opera dell’immaginazione? Ma, mi chiedo, ha senso questa domanda? L’unica cosa che so è che in me sale, sale l’angoscia di non sapere in quale punto di questo Plusverso io vivo e perché…
Roma, 2007 


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