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Prodigio (Racconto onirico VI)

Da Bruno Corino @CorinoBruno

Prodigio (Racconto onirico VI)
Domenico era tutto preso dai preparativi della sera e non voleva che gli stessi intorno, perciò quel pomeriggio, dopo essermi ritemprato con una lunga dormita, decisi di fare una passeggiata in campagna. Aprile è un mese bello da respirare. Respirarne i profumi risveglia in me il desiderio di vivere. Non solo gli odori ridestano in corpo quel desiderio, ma anche i sapori aspri e arsi della mia terra. Sentivo soprattutto il bisogno di stare solo. Le ultime esperienze mi avevano causato un senso di smarrimento, come se non capissi più in quale realtà vivessi. Le coordinate che da tempo guidavano la mia esistenza sembravano momentaneamente sospese e i confini che separavano un livello di realtà dall’altro erano completamente saltati; vivevo in uno stato confusionale; avvertivo il bisogno di trovare me stesso. Forse, annusando i profumi della mia infanzia, del tempo in cui quella campagna era teatro delle mie avventure, mi avrebbero aiutati a ritrovare il senso smarrito della realtà.
Camminavo senza meta e senza incontrare nessuno. Com’era diventata diversa la campagna rispetto ai miei ricordi! Tutto mi sembrava avvolto da un senso di desolazione, di abbandono, come se la specie umana avesse deciso di ritirarsi da quella fetta di mondo. I suoni della natura, le strida degli uccelli volteggianti nell’aria, il fruscio leggero del fogliame, il gorgheggio strozzato dell’acqua che affiora dalla gora, tutto ciò non faceva altro che esaltare con maggior evidenza quel senso di vuoto. Non sentivo nessuna voce, nessun rumore che in qualche modo potesse riportare l’eco di qualche traccia umana. Avvertivo l’identica impressione ch’ebbi la prima sera che giunsi in paese, quando decisi di fare una breve passeggiata nella parte vecchia. E pensare che un tempo, la campagna e la zona vecchia del paese, erano i luoghi più vitali! Una volta si sentivano per tutta la campagna zappe percuotere il terreno, colpi d’accetta, richiami, zoccoli di animali urtare contro la pietra dura delle stradine. Ora vedevo crescere una vegetazione senza meta e senza scopo, o almeno senza che ci fosse la mano provvida dell’uomo che sapesse indirizzarla.
M’ero seduto su piccolo masso e scrutavo l’immensa volta celeste che s’apriva su tutta la pianura. Sotto di me, lungo un crinale scosceso e roccioso che terminava su un piano c’era la famosa Casa Rossa abbandonata a se stessa: una volta, quando ci venivamo da bambini, mia madre per spaventarci e tenerci lontani da quella casa – il luogo era molto roccioso ed infestato da vipere – ci raccontava che in quella casa lì vivevano le streghe, che rubavano i bambini per i loro riti. Noi, infatti, l’abbiamo sempre evitata e temuta, la guardavamo da lontano, magari seduti nello stesso punto in cui stavo in quel momento; ed esercitava un fascino particolare sulla nostra fantasia. Osservavo quella casa circondata da una fitta vegetazione. Conservava ancora il suo aspetto maestoso, i suoi tetti aguzzi svettavano verso il cielo, e i quattro i lati erano circondati da finestre ampie. Com’era diversa da quelle casette di campagna, quelle piccole casupole basse e rabberciate costruite con scarsi mezzi! Quella casa mi faceva venire in mente quelle villette stile americano che si vedono in tanti film: magari, pensai, era stata costruita da qualche contadino emigrato in America che al ritorno aveva speso i suoi dollari per costruire quella abitazione sul modello delle casette ammirate nella nuova terra. Non sono mai riuscito ad appurare la sua origine, ma era strano vedersela presentare davanti agli occhi in quel luogo. Mentre la osservavo cominciavo a capire la ragione di tutte quelle storielle nate sul suo conto: era una costruzione che non aveva confronti né in paese né in campagna. Persino la scelta di quel colore vivace differiva da tutto il resto. Era una casa completamente diversa da ogni altra abitazione esistente, ed era la sua diversità ad averla trasformata in un luogo malefico. Chissà, pensavo sorridendo, se ci fossi passato nei giorni del delirio forse avrei potuto vedere una strega aggirarsi intorno a quella casa rossa dall’aspetto così sinistro.
Nel medesimo istante in cui davo corso a questo pensiero, con la coda dell’occhio avevo scorto una sagoma umana sbucare dalla curva. La vista era offuscata dalla luce intensa del sole che rendeva le immagini tremolanti; dopo quel primo attimo di smarrimento, con mia grande sorpresa, quella figura aveva le sembianze del professor Tullio. Credo che anche lui fosse sorpreso quanto me di vedermi in quei luoghi. Appena mi riconobbe dietro i suoi occhiali opachi cominciò ad agitare il fazzoletto con il quale si stava asciugando la fronte. Mi alzai e gli andai incontro. Quando fui abbastanza vicino, lui, prima di stringermi la mano, tirò il petto in avanti, alzò la testa, aguzzò la vista per metterla meglio a fuoco, e con una mano appoggiata al fianco e l’altra ben ferma sul bastone, nell’atto di riprendere fiato dopo la bella scarpinata, mi disse: «E lei cosa ci fa da queste parti?». «Passeggio! Immagino che anche lei…». «Io tutte le domeniche faccio questa camminata! Lascio la macchina giù», e mi indicò con la punta del bastone la direzione, «arrivo sino al Convento disabitato, poi quando s’è fatta una certa ora rifaccio la discesa…». «È una passeggiata di salute!». «Alla mia età mi voglio tenere un po’ in movimento!». Disse, avviandoci verso il luogo dove stavo seduto: «Quelli della mia età preferiscono stare tutto il giorno in piazza, seduti su quelle panchine… una volta mi sono affacciato anch’io in piazza…», ogni tanto si fermava per riprendere fiato, «e ho visto tutti quei capelli bianchi, quei vecchi come me, seduti o in piedi, che parlavano… mi sembrava di essere capitato nel giardino di un ospizio, che aveva aperto le porte per far prendere un po’ d’aria ai suoi ospiti!». «Beh, non mi pare una bella immagine!». Commentai, sorridendo. «Purtroppo! Ormai questo paese s’avvia ad essere sempre più vecchio… i giovani non vogliono restarci…». Disse il professore con aria affranta, accarezzandosi il pizzetto.
Ci sedemmo su uno spuntone di roccia di fronte alla Casa Rossa. «Ah!», sospirò, «guardi che vista meravigliosa!». Annuii. Stavo per prendere le sigarette, quando il professore tirò fuori dalla giacca che s’era poggiata sulle spalle un pacchetto dal color giallo: «Provi una di queste, me le hanno portato dall’Argentina, ma sono piuttosto forti e io non riesco a fumarle…». Mi disse allungando il braccio. Dopo averlo ringraziato, lessi la marca: Sanbenitos, ne estrassi una e l’accesi. «Se le piacciono se le può anche tenere … però faccia attenzione perché sono piuttosto forti…». «In effetti, sono molto forti… ma hanno un gusto particolare…». «Le tenga, allora». Poi, lucidandosi gli occhiali, mi chiese: «Cosa scrive in questi ultimi tempi?». «Per ora niente!». Dissi, facendo volteggiare nell’aria una boccata di fumo. «Come mai?». Mi domandò, guardando le lenti per vedere se erano pulite. «È che negli ultimi tempi sono combattuto tra lo smettere definitivamente di scrivere racconti e il piacere di continuare a farlo». «In che senso?». Mi chiese, infilandosi gli occhiali. «Non sono mai soddisfatto di ciò che scrivo… dico a me stesso che è venuto il momento di smettere… per un certo periodo mantengo fede a questo proposito… poi abbozzo un’idea e mi torna di nuovo la voglia di scrivere… arrivo a metà e cominciano ad affiorare gli stessi dubbi… e così ritorno al vecchio proposito… mi sembra di vivere i corsi e i ricorsi della storia!». «In realtà, lei si dispera un po’ troppo», osservò tenendo le mani poggiate sul bastone, «il consiglio ch’io posso darle è di far maturare meglio le idee… a volte è la fretta che ci rovina… le idee devono prima prendere corpo nella nostra mente… e poi possiamo tradurle sulla carta». «Mi sembra un buon consiglio! Le confesso che mi ha fatto molto piacere incontrarla! Avevo, infatti, bisogno di parlare con qualcuno di quanto mi sta accadendo. Lei ha visto come è fatto mio fratello? Ormai, ogni volta che accenno alla storia delle percezioni extrasensoriale prova un senso di fastidio». «Beh, è comprensibile… non possiamo cambiare la natura delle persone…». «Lo so, infatti, non gli faccio nessuna colpa! E poi, a pensarci bene, anche a me ciò che mi sta accadendo appare incredibile! Guardo questa aria tersa, piena di pulviscoli invisibili, questa luce solare che sembra far tremolare gli oggetti lontani… insomma, professore, guardo questa fisicità così materiale e resistente, e faccio fatica a credere che vi sia una realtà altra da quella percepita…». Dissi, spegnendo il mozzicone contro la roccia.
«E allora, tutto ciò che ha percepito finora, che cos’è, secondo lei?». «Il prodotto della mia mente, forse…». «Un prodotto della mente», ripeteva il vecchio, cullando il mento sul bastone: «Soltanto il prodotto della sua mente?». Mi chiese guardandomi di sottecchi. «O della mia immaginazione, se vogliono essere precisi…». «Lei, insomma, non vuole prestare fede ai suoi sensi?». «I miei sensi? È vero che per una combinazione di circostanze inspiegabili mi sono trovato a vivere delle esperienze straordinarie, ma aver vissuto delle allucinazioni anche cosi palpabile vuol dire aver vissuto un’esperienza concreta? Un’esperienza identica a questa che sto vivendo ora parlando con lei?». «Questo è il punto!», diceva l’altro battendo il bastone sulla roccia, «questo è il punto!», continuava a ripetere: «Chi le dice che anche questo momento non sia un prodotto di un’allucinazione? Come fa a sostenere che questo momento sia reale, mentre l’altro è solo un’allucinazione?». «Così lei mi confonde… mi sembra un concetto troppo filosofico…». «In fondo ciò che definiamo realtà è la traduzione di stimoli in immagini… la memoria conserva queste immagini e poi la mente si sforza di trovare dei nessi…». «Con discorsi come questi, lei mi complica le cose…». «Allora, le faccio un esempio banale: la realtà che lei percepisce attraverso i media è forse una realtà reale?». «Se lei intende dire se credo a quegli avvenimenti che conosco attraverso i media, rispondo di sì; comunque quegli avvenimenti fanno parte del mio potenziale campo percettivo; delle persone e delle circostanze di cui i media parlano, potrei fare un’esperienza diretta…». «Ma, mi perdoni, anche le cose che lei ha vissuto non fanno anch’esse parte del suo campo percettivo?». «Sì, è vero, anche il sogno rientra in questo campo, ma non per questo lo scambio con la realtà reale…». «Allora, poniamo il caso che un uomo, che ignora completamente qualsiasi ritrovato tecnologico, un giorno si trovi tra le mani una radiolina a pile… non sapendo cosa sia, le dà un colpetto, questo oggetto misterioso all’improvviso si mette a parlare nella sua stessa lingua, e lui, tutto spaventato, si ritrae, lasciandolo cadere a terra, e questo smette di parlare… ha ascoltato un frammento di conversazione, e comincia a chiedersi come ha fatto quell’oggetto a parlare: c’è forse qualche spirito imprigionato dentro? E le voci che ha sentito erano reali? E le cose che ha sentito erano altrettanto reali? Può darsi, infatti, che il nostro uomo abbia sentito un frammento di un dramma radiofonico, ma, non conoscendo questa forma d’arte, non può neanche distinguere la realtà dalla finzione… però egli, essendo un uomo curioso, vuole capire come quel “coso” si è messo a parlare. Allora, si avvicina di nuovo a quell’oggetto con circospezione e con un colpetto di bastone, “tac”, “tac”…», il professore colpì con la punta del bastone un sasso, imitando la scena, «la radiolina riprende a parlare… “ziz... ziz… ziz”», e imitava il fruscio della radio, «poi tende l’orecchio e ascolta un altro frammento di conversazione che si lega a quello precedente; ora, quell’uomo si trova nella sua identica situazione: le voci che ha sentito sono reali?».
«D’accordo, però tra me e quell’uomo c’è un mezzo tecnologico che ci distingue…». «Ah, ah, ah!», ripeteva l’altro, ammonendomi con l’indice: «Questa obiezione da parte sua non è leale!». «Perché?». Chiesi sorpreso. «Perché lei sta valutando le cose dall’esterno rispetto al punto di vista dell’uomo che ignora la tecnologia!». «Non capisco…». «Voglio dire, lei sta giudicando il mio esempio con gli occhi di chi è consapevole della tecnologia, invece, aveva il compito di vedere le cose dal punto di vista di chi la ignora. La mia domanda si riferiva al fatto se ciò che lui ha sentito da quella scatola magica appartenga o non appartenga a una realtà reale, anche se non comprende come fa quell’oggetto a parlare. Lei, in un certo senso, si trova nella identica situazione: sente delle voci, frammenti di dialoghi, percepisce degli odori, ma non riesce a capire la loro provenienza. È normale che tutto ciò che non riusciamo a comprendere lo attribuiamo a forze che definiamo magiche, o misteriose, lo fa anche il nostro uomo “primitivo”: ciò che sfugge alla comprensione del momento lo andiamo a collocare nella cartella: “Fenomeni inspiegabili o fenomeni paranormali”. E ciò perché non accettiamo l’idea che ci sia qualcosa che sfugga alla nostra comprensione!».
Era sempre piuttosto scettico nei confronti di quei ragionamenti, ma soprattutto turbato. Comunque stessero le cose, non mi sentivo del tutto tranquillo. Restammo a parlare un’altra ora, finché non vedemmo il sole declinare dietro le montagne, che come sentinelle secolari stavano a guardia della parte occidentale del paese. Gli aveva raccontato l’avventura della sera precedente, e lui mi sembrò tutto soddisfatto degli effetti provocati dalla sua sostanza. «Continui, continui…». Mi incitò, alzando un braccio per salutarmi, prima di vederlo scomparire dietro la curva così com’era apparso. «Continui, continui…», mi ripetevo nella mente. Restai ancora un poco ad ammirare il tramonto. Accesi un’altra sigaretta. La ragione che ogni tanto mi porta sul far del crepuscolo tra questi luoghi è propria la loro bellezza, una bellezza malata d’infanzia e di nostalgia. Guardavo le striature rosse del cielo accendersi di una luce che diventava sempre più vivace, man mano che il sole scompariva dietro le montagne; soltanto all’imbrunire i colori acquistano una loro intensità, quando ormai sono prossimi a dileguarsi nel buio della sera. In fondo, pensavo, anche la morte proietta sulla vita una luce più intensa… Era una conclusione amara come amaro era il sapore che mi lasciavano in bocca quelle sigarette argentine…


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