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PRODITORIAMENTE di ITALO SVEVO (1861 – 1928)

Creato il 17 novembre 2014 da Signoradeifiltriblog @signoradeifiltr
PRODITORIAMENTE di ITALO SVEVO (1861 – 1928)

Maier è un imprenditore di discreto successo; ha da poco superato i sessant’anni quando un cattivo affare, condotto con una persona disonesta, lo mette sul lastrico. Per riprendersi capisce che dovrà lavorare duramente, condannando se stesso e la famiglia a una vita di disagi e ristrettezze. Ci sarebbe una possibilità per riuscire a pagare i debiti contratti; ottenere un prestito dal suo caro amico Reveni, anch’egli imprenditore. Ma come chiedergli una mano? Qui emergono le difficoltà psicologiche del protagonista poiché la cultura borghese vuole sicurezza e forza; chi si è dimostrato improvvido e sciocco, sia pure in una sola sfortunata circostanza, è in un certo senso compromesso nella cerchia dei bravi uomini d’affari. Maier si reca quindi a casa dell’amico incerto su come procedere; vuole essere aiutato, ma non può accettare umiliazioni. L’ideale sarebbe che Reveni leggesse tra le righe e gli venisse fraternamente incontro, senza costringerlo ad abbassarsi a una esplicita richiesta. “Erano stati buoni amici tutta la loro vita”, ci viene detto. Il dialogo avviene alla presenza della consorte dell’amico con la quale Maier non è mai stato in confidenza. L’uomo parla, compie lunghi giri di parole, si spazientisce a tratti, ma non riesce a dare all’interlocutore l’esatta idea del suo dramma. Reveni ascolta ma senza farsi coinvolgere e quando parla, lo fa da una posizione di tranquillità e di superiorità; lui è ancora un imprenditore di successo. Non riesce a immedesimarsi in una situazione di grave difficoltà. Parla di logica e di lucidità negli affari; quello che Maier non ha avuto. A un certo punto lo sfortunato commerciante sente di avere tutto contro di sé, l‘amico che non lo capisce, la moglie che forse gli è ostile da sempre, gli oggetti stessi della casa che rimandano a una solidità economica che lui ha perso: “Egli vedeva quella sala da pranzo per la prima volta luminosa per la luce delle grandi finestre riverberata da marmi agli abbassamenti delle pareti, dagli ori in certe filettature alle porte, dai cristalli che ancora si trovavano sul tavolo”. Mentre Maier nota tutto questo, l’altro si sente male; viene chiamato un dottore, ma inutilmente. Muore invece che farmi un prestito, sembra pensare l’indebitato commerciante che poi con una buona scusa se ne va e giunto in strada si sente sollevato; la disgrazia dell’amico rende più sopportabile il suo fardello. Il protagonista ragiona solo in rapporto alle sue impellenti esigenze; il suo è un mondo economicistico. Non c’è dispiacere per quella morte che anzi lo riconforta; ciò fa pensare alle mille considerazioni anche ciniche che si fanno pur di trovare un appiglio che offra un aiuto almeno a livello psicologico in momenti delicati. Ma Svevo ci insegna col suo romanzo principale, La coscienza di Zeno, che ogni cosa è vista da un punto di vista soggettivo e quindi limitato, relativo; in una parola, malato. Non è salutare dare tanto credito a una visione incompleta delle cose. La psicologia di Maier lo porta a varie oscillazioni nel dialogo, a seconda di ciò che percepisce nell’atteggiamento dei due interlocutori; speranza e pessimismo si alternano capricciosamente, ma tutto è descritto in base appunto alla sua visione soggettiva. In fondo lui non domanda chiaramente il prestito così necessario; cerca di presentare a grandi linee la situazione, ma senza darne i precisi dettagli, per non sentirsi mortificare nella sua dignità di imprenditore ora in affanno. Forse se avesse chiesto in modo schietto, parlando da amico ad amico, avrebbe ottenuto qualcosa. Invece non chiede; quindi non si può nemmeno dire che Reveni rifiuti di aiutarlo. Il suo atteggiamento freddo e distaccato potrebbe essere solo il risultato del punto vista parziale e malato del protagonista, vittima di una morale borghese degli affari che predica successo e non ammette sfortuna. La conclusione ci rimanda ai paradossi cari a Svevo; l’inetto (vero o presunto), pur pieno di assilli e incertezze, alla fine cade in piedi e se ne va quasi rasserenato. L’amico, apparentemente superiore nella solidità economica esemplificata dalla lussuosa casa, muore (come succede anche all’aitante Guido nella Coscienza di Zeno). Non c’è sicurezza per nessuno; il fiuto per gli affari non elimina l’irriducibile precarietà della nostra esistenza.

Ma la domanda amara che sorge con immediatezza, in un ambiente così materialistico, è questa; i due signori del racconto erano poi veramente amici?


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