Un tentativo di analisi della produttività nelle diverse zone dell’Italia
di Daniele Castelnuovo
Presentandosi al Senato per la fiducia il presidente del Consiglio Monti ha affermato tra l’altro che: “Un ritorno credibile a più alti tassi di crescita deve basarsi su misure volte a innalzare il capitale umano e fisico e la produttività dei fattori”. Ha aggiunto poi: “Gli investimenti in infrastrutture, di cui tante volte e giustamente abbiamo parlato e si è parlato nel corso degli anni, sono fattori rilevanti per accrescere la produttività totale dell’economia”.
Quest’affermazione è importante e tanto più apprezzabile perché è stata fatta da parte di un economista accademico, fine esegeta delle teorie monetarie e appassionato osservatore della finanza pubblica.
Ricordiamo che la misura più immediata della competitività è la produttività del lavoro. Tuttavia accanto a questa c’è da considerare quella del capitale e in genere dei fattori di produzione. Ancora più pertinente, ma un po’ astratto è il costo del lavoro per unità di prodotto che si ottiene rapportando i salari alla produttività del lavoro. Tuttavia, se è abbastanza semplice ottenere una stima del livello medio del salario, è quasi impossibile fornire una misura esatta della produttività nelle sue diverse definizioni. Come vedremo, è però possibile elaborare stime di ciò che la determina e generiche indicazioni numeriche.
Cosa determina
la produttività
La definizione di produttività è, secondo il dizionario di economia, il rapporto tra la quantità di prodotto e la quantità di uno o più fattori utilizzati nel processo produttivo. Scrive l’economista Prescott nel 1998:‘’Il tipico lavoratore in un paese ricco come la Svizzera o gli Stati Uniti è venti o trenta volte più produttivo e, quindi, più ricco di un lavoratore tipico di un paese povero come Haiti o la Nigeria’.[1] Procede poi a fare un elenco di ciò che determina la produttività:
a) dotazione di materie prime, come il petrolio,
b) capitale (fisico) per addetto (valore di macchinari, impianti etc. per ogni lavoratore),
c) tasso di risparmio, che contribuisce alla formazione del capitale fisico e soprattutto
d) il capitale intangibile (formazione, organizzazione del lavoro, brevetti, marchi etc.).
Le difficoltà di valutare ognuno di questi termini sono facilmente intuibili soprattutto perché si tratta spesso di un ragionamento circolare. Da un lato il valore varia con il mutare del rendimento degli investimenti alternativi, sintetizzabili con il tasso d’interesse. E, a parte i costi di acquisto e di rimpiazzo, le migliorie e gli ammortamenti rilevabili contabilmente, il valore di un bene capitale consiste nella sua capacità di creare valore. Prescott si sofferma in particolare sul fatto è che è molto difficile distinguere il contributo alla produzione di una macchina, come tale, da quello dovuto alla capacità, e volontà e sforzo di chi la opera, l’organizzazione del lavoro o perfino la posizione di mercato del prodotto finale. Egli sembra comunque aderire alla scuola di pensiero secondo la quale sono decisivi due elementi: lo standard di prestazione medio dei lavoratori in un certo ambiente (quante macchine sono operate in media da un lavoratore) e la disponibilità ad adeguarsi ai massimi valori di questo standard (adattandosi a ritmi di lavoro molto intensi). Sembra quasi di poter dire estremizzando un po’, la controproposta rispetto ai ‘Tempi Moderni’ di Charlie Chaplin del 1936.
Da un primo punto di vista empirico l’OCSE elabora statistiche dettagliate sia per la produttività del lavoro che per quella totale per tutti i suoi paesi membri.. A questo indirizzo fanno capo anche statistiche sul costo del lavoro per unità di prodotto e altre statistiche sussidiarie.
Abbiamo scelto di riportare un confronto della produttività che, pure nella sua più ampia definizione di PIL per ora lavorata, contiene una comparazione con quella degli Stati Uniti (convenzionalmente uguale 100).
I problemi di misurazione
I problemi di misurazione sono del tutto evidenti:
1) il dato di partenza del PIL è stimato in base alle statistiche nazionali,
2) il cambio è quello medio dell’anno,
3) le ore lavorate per persona differiscono in modo ampio,
4)il monte-ore lavorate è derivato dal punto precedente.
Non sorprenderà che l’alta produttività americana provenga sia da una misura generosa del PIL, che comprende tra l’altro stime arbitrarie nel settore dei servizi, sia da un monte-ore lavorate medio per addetto particolarmente basso (1647 su teoriche 2200 al netto delle ferie). La Corea e la Grecia sarebbero i paesi dove si lavora in media il numero maggiore di ore. Da questo punto di vista l’Italia supera molto la Germania mentre la Francia e la Danimarca si collocano poco sopra il Messico.
E’ forse opportuno ricordare che il lavorare un numero maggiore di ore è un’apparente virtù perché si traduce in una minore produttività del lavoro. In effetti, meno ore lavorate con maggiore impegno e soprattutto con un’organizzazione e capitale migliori sono una delle spiegazioni di un’alta produttività.
Tuttavia come si è detto, è possibile solo con grande approssimazione cercare di individuare il ruolo indipendente del lavoro, del capitale e del progresso tecnico nella efficacia economica di un’economia Al più si può dire che i paesi più arretrati possono beneficiare della rapida adozione di tecniche più avanzate anche per la presenza di un esercito di lavoratori di riserva ampio e talvolta meno formato. Questo è in genere più disponibile a uno sforzo più intenso e prolungato su mansioni relativamente semplici. All’altro capo, i paesi che possiedono maggiore capitale fisico e immateriale possono ottenere grandi quantità di prodotto con una mano d’opera più formata anche se meno assidua. Un caso intermedio può essere rappresentato dalla Francia, dove la segmentazione della forza lavoro tra un’elite di dirigenti molto preparati e determinati non riuscirebbe a trasmettere ai livelli inferiori il know how e la motivazione necessari per un livello di produttività media elevata.[1]
Per quanto riguarda l’Italia, gli studi si sono soffermati sulle singole realtà geografiche, settoriali e merceologiche. Si è anche tentata una ‘scomposizione della produttività in una parte che misura i cambiamenti generalizzati di natura tecnologica interni alle imprese (effetto within-firms) e, in un altro, che dipende dalla variazione delle quote di mercato (effetto beetwen-firms)’ a favore delle imprese più produttive. [2] Più importante sembra però ancora la diversità strutturale tra le imprese italiane.
La conclusione che possiamo trarre è che, nel caso dell’Italia, la produttività e la competitività internazionale sono da collegarsi più alle caratteristiche di prodotti innovativi. E sotto questo aspetto è significativa l’avanzata delle regioni del Centro, ove la quota di prodotti innovativi sul totale del fatturato è la più alta d’Italia e la quota di esportazioni sul totale del fatturato è ormai solo di pochissimi punti inferiore a quella del Nord-Est e del Nord-Ovest. La spesa per innovazione non sarebbe invece un fattore rilevante perché potrebbe non essere contabilizzata correttamente o non potrebbe indirizzarsi in segmenti di mercato inadatti o infine perché l’organizzazione della produzione è inefficace.
[1] Schumpeter, The French way of work, The Economist, November 19th 2011 p.67
[2] F. Aiello, V. Pupo, F. Ricotta, Un’analisi territoriale della produttività totale dei fattori in Italia, Università della Calabria, Working Paper 07-2010, Aprile 2010
[1] Edward C. Prescott, Needed: a theory of total factor productivity, International Economic Review, Vol. 39, No. 3 August 1998, p. 525