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Produttività e costo del lavoro

Creato il 28 aprile 2014 da Sviluppofelice @sviluppofelice

di Bruno Soro

Dunque il cuore, l’obiettivo centrale dello studio dell’economia è

capire come e perché la produttività cresce.

P. Sylos Labini, “Un paese a civiltà limitata”, Laterza, Bari 2001.

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Il professor Mario Deaglio ha spiegato con dovizia di particolari l’inutilità del tentativo di molte imprese italiane di riacquistare la competitività di prezzo per i propri prodotti puntando esclusivamente sulla riduzione del salario dei lavoratori e/o sulla flessibilità delle condizioni lavorative [“Europa in cerca di produttività”, La Stampa, 29 gennaio]. A molti osservatori sfugge tuttavia che, ai fini della competitività di prezzo, ciò che conta è il rapporto tra il salario unitario e la produttività del lavoro. Da esso si evince che se la produttività del lavoro aumenta più lentamente del salario unitario il costo del lavoro per unità di prodotto aumenterà. In quest’ottica il problema, da sempre al centro dell’attenzione di un grande economista come Paolo Sylos Labini, diviene quello di spiegare da che cosa dipende la dinamica della produttività del lavoro.

Stando al filone di pensiero dominante, per far crescere la produttività del lavoro occorre riformare il “mercato del lavoro”, chiedendo ai lavoratori di rinunciare a qualche diritto acquisito, come le pause, oppure accettando modificazioni all’orario di lavoro. Esiste tuttavia un altro filone di pensiero per il quale la produttività del lavoro aumenta prevalentemente in conseguenza delle innovazioni incorporate nei nuovi investimenti che consentono di “risparmiare lavoro”. L’accento viene qui spostato dalla riduzione del costo del lavoro alla messa in opera di nuovi investimenti, nella convinzione che la produttività del lavoro potrà aumentare solo in seguito all’acquisto di nuovi macchinari mediante i quali le imprese potranno acquisire i vantaggi derivanti dal progresso tecnico. Le imprese, però, effettueranno nuovi investimenti solo in presenza di aspettative positive circa l’andamento della domanda per i loro prodotti. In una fase di crisi come l’attuale procederanno a “razionalizzare” l’utilizzo del lavoro, sia con i licenziamenti che con la compressione dei salari. Con la riduzione del reddito disponibile delle famiglie, i consumi si riducono. Il peggioramento delle aspettative che ne consegue, farà sì che le imprese rinviino le loro decisioni di investimento; per cui, se non aumenta la produttività del lavoro, il costo del lavoro per unità di prodotto aumenterà e la competitività di prezzo diminuirà, innescando un processo di auto-alimentazione della crisi.

Allo scopo di favorire la crescita economica, i fautori della visione dominante propongono di ridurre il costo del lavoro, di accelerare i pagamenti alle imprese, di ridurre le imposte sul lavoro e di agevolare la concessione del credito alle imprese. I fautori della seconda visione ritengono invece che sia indispensabile promuovere una redistribuzione del reddito in favore delle categorie di percettori (i lavoratori dipendenti, i pensionati, i giovani privi di occupazione, in altre parole, in favore della “classe media”) con una più elevata propensione a consumare. Ciò stimolerebbe sia la spesa per consumi che quella per gli investimenti produttivi, cui seguirebbe un aumento della produttività del lavoro e il miglioramento della competitività di prezzo. Si tratta di due visioni contrapposte, peraltro non incompatibili tra di loro, che da sempre dividono il mondo degli economisti.

Dalla seconda metà degli anni Novanta, alla tradizionale bipartizione del sistema economico nell’economia “reale” e in quella “monetaria” (in cui la seconda è vista in funzione della prima), si è affiancata una nuova branca dell’economia politica, la cosiddetta “economia finanziaria”. Potendosi muovere liberamente alla velocità della luce da un capo all’altro del mondo, quest’ultima ha preso il sopravvento ed ha favorito la creazione di immense ricchezze finanziarie, totalmente sganciate dall’attività produttiva e dal lavoro, in grado di condizionare non solo il sistema politico, ma finanche i rapporti tra gli stati. Come se ne esce?

Per il Premio Nobel Paul Krugman [“La coscienza di un liberal”, Laterza, Bari 2008] una ricetta ci sarebbe: quella adottata dagli Stati Uniti d’America per sconfiggere la Grande Crisi degli anni Trenta del secolo scorso. Anche allora, scrive Krugman, c’era chi pensava che non fosse “possibile intervenire”, ritenendo che un aumento della quota di reddito destinata alle famiglie avrebbe comportato “effetti devastanti per l’economia”. Ma se Roosevelt e Truman “riuscirono a farlo allora, dovremmo essere in grado di ripetere l’impresa”. Nella sua nuova veste di Ministro all’Economia, il professor Pier Carlo Padoan continuerà a privilegiare la dottrina dell’austerità, auspicata quando ricopriva importanti cariche a livello internazionale, oppure sceglierà di attuare anche solo una “Piccola Compressione” lungo le linee indicate da Paul Krugman?

28 aprile 2014

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