Partendo dal fondamentale saggio di Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, si potrebbe dire che l’arte, storicamente, possa essere divisa in due grandi categorie: di pura produzione e di riproduzione. Per arte di pura produzione, intendo tutte quelle forme estetiche che sono fruibili esclusivamente nel luogo della loro produzione originaria o, comunque, in quello tradizionalmente deputato alla loro fruizione: una piazza, un museo, un palazzo, una chiesa e così via. L’arte di riproduzione, invece, può essere fruita solo nel suo essere riprodotta: una rappresentazione teatrale, un concerto, un libro. In pratica, nell’arte di pura produzione, l’ hic è assoluto, immutabile o raramente mutabile; nell’arte di riproduzione è relativo e variabile.
Nel novecento, le innovazioni tecnologiche hanno favorito l’ingresso, nel campo artistico, di nuove modalità espressive, che hanno allargato notevolmente le possibilità di riproduzione. La fotografia, il cinema, la televisione, la registrazione audio hanno messo in crisi la tradizionale fruizione dell’arte, moltiplicandone le occasioni e le tipologie. In questo modo, da una parte si è andati verso l’inclusione delle masse popolari nella fruizione artistica; dall’altra, rendendo quotidiana l’arte, si è andato perdendo quel carattere magico-sacrale della fruizione artistica (l’Aura benjaminiana) che ha rappresentato, fin dagli albori della civiltà, il limes inconfondibile tra la sfera estetica e la vita di tutti i giorni.