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Di rado se ne sente parlare. Ancora più di rado si sente loro parlare. Intendo i ghostwriter, coloro che prestano la loro parola a chi parola non ha, ma ha comunque ha gran voglia di raccontare una storia o anche esibire se stessi, o dare forma a un'idea, oppure vedere il proprio nome sulla costola di un libro.
A forza di prestare ad altri la loro parola, insomma, quasi sempre il ghostwriter non ha più la parola per se stesso. Per questo ho letto con molto piacere quanto di sé dice sul Venerdì di Repubblica Fabio Rizzoli, uno di questi fantasmi. Che chissà, forse mi è già capito anche di leggere, vai a sapere però sotto quale altro nome.
Quando le persone vengono a sapere come mi guadagno da vivere, generalmente mi guardano inorridite, neanche avessero appreso che gestisco un traffico d'organi tra Italia e Brasile
Dice Fabio Rizzoli: alla mia professione, sicuramente bizzarra, si è appiccicata l'idea di un che di riproverevole. Come se quella del ghostwriter non fosse nient'altro che l'arte dell'inganno, l'esercizio della simulazione. Pensare che negli Stati Uniti questi fantasmi hanno persino la loro associazione professionale, capace presumibilmente di dettare regole e tariffe.
No, nemmeno io ci vedo niente di riprovevole. Perché dovrebbe esserlo, mettere la propria parola al servizio di chi non ha parola? Semmai mi stupisco dell'altro, del committente, chiamiamolo così. Perché pretendere ciò che non si ha?
Più che l'arte dell'inganno, mi pare la fiera della vanità. Come se un nome su una copertina cambiasse davvero la vita. Vanitas vanitatum...
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