La vittoria nel 2002 in Turchia del Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) può essere considerato un evento politico di singolare importanza nel panorama del Medio Oriente. Infatti, per la prima volta nella storia di una Repubblica laica dalla forte tradizione nazionalista è salito al potere un partito islamico moderato e filo europeo. Sorto dalle ceneri del defunto partito islamico di Erbakan, messo al bando nel 1998 insieme a Recep Tayyp Erdogan, l’AKP è riuscito dal 2003 a oggi a trasformare la Turchia in una potenza regionale dalle ambizioni importanti. Erdogan, scontata la condanna per incitamento all’odio religioso e attentato alla laicità dello stato, il 14 marzo del 2003 è divenuto primo ministro della Repubblica e punto di riferimento per i partiti islamico-moderati di tutto il Medio Oriente.
Il programma portato avanti dall’AKP di Erdogan è stato da subito basato sulla necessità di ridare alla Turchia un ruolo di prim’ordine nel Medio Oriente, nel Caucaso e nell’Asia centrale. Questa volontà di espandere l’influenza politica, culturale ed economica turca non rappresenta una novità. In termini generali, infatti, questa visione allargata della politica estera turca era stata già tentata negli anni ‘90 con modestissimi risultati dovuti alla mancanza di risorse economiche necessarie per supportare gli ambiziosi programmi dei leader dell’epoca. L’era di Erdogan e dell’AKP è iniziata con un pesante deficit economico-finanziario ereditato dalla pesante crisi degli anni ‘90. Nel 2001 la Turchia era in recessione con un PIL al -9,7%, un’inflazione del 68,5% e un tasso di disoccupazione del 10,4%. Dinanzi a questa situazione, l’AKP propose di portare avanti un programma di rilancio basato sulla modernizzazione delle strutture produttive e l’incremento di capitali stranieri nel Paese.
Erdogan, seguendo le linee guida del Fondo Monetario Internazionale, in pochi anni è riuscito a risollevare l’economia turca riportandola sui binari della crescita. Nel 2003 la crescita del PIL ha raggiunto il 5,9%, l’inflazione è calata al 18,4% e il debito pubblico si è ridotto rispetto al PIL passando dal 90,4% del 2000 al 70,3% del 2003. Questo trend positivo non è stato di breve periodo ma è continuato per diversi anni fino alle soglie della crisi internazionale. Nel 2007, tutte le voci fin qui analizzate hanno evidenziato e confermato un netto miglioramento dell’economia turca. Infatti, fino al 2007 l’andamento del PIL, nonostante dei leggeri e momentanei ridimensionamenti, è rimasto positivo e tra i più alti in Europa. Alla fine del primo mandato del governo di Erdogan il paese ha registrato una crescita media del 5%, un’inflazione del’8,4%, una disoccupazione diminuita più di un punto percentuale rispetto al 2002 (11%) e attestatasi al 9,4%. Infine anche il debito pubblico ha raggiunto nel 2007 livelli meno preoccupanti rispetto all’inizio dell’era di Erdogan riducendosi al 39,9% del PIL.
L’arrivo della crisi internazionale in Europa ha colpito in parte anche la Turchia causando nel 2009 un temporaneo arretramento della crescita economica (-4,8%). Questa flessione negativa è stata subito superata da una decisa ripresa nel 2010 con un PIL in crescita dell’8,4%, anche se rallentato nel 2011 al 4,6%. Inoltre, il problema della riduzione del debito pubblico negli ultimi anni è continuato a essere un punto fermo dell’agenda dell’AKP, ottenendo, dopo un suo innalzamento dovuto all’arrivo della crisi internazionale (2008-2010), un ritorno nel 2011 al 39,9%, come ai livelli del 2007. I successi in campo economico dell’AKP hanno permesso il ritorno in Turchia di molti di quei capitali stranieri che, nella crisi economica degli anni ‘90 e dei primi del 2000, si erano ritrovati a dover ritirare i loro investimenti impoverendo il tessuto economico del paese. Nel 2007 gli investimenti diretti esteri in Turchia hanno raggiunto una somma pari 106 mdl $, nel 2009 il loro livello è continuato ad aumentare attestandosi a 181,7 mdl $. Nel 2010, la crisi delle banche in Europa e il problema dei conti pubblici di Grecia, Spagna e Italia hanno frenato questo trend portando gli investimenti esteri in Turchia pari a 84,5 mdl $. Nel 2011, Ankara è ritornata a essere un importante punto di riferimento per gli investitori stranieri accumulando 102,6 mdl $ in investimenti economici suddivisi in molteplici progetti utili al rilancio e alla conferma della nuova potenza economica turca.
La riconferma al governo dell’AKP nel 2007, oltre che dal punto di vista interno, ha avuto una ripercussione anche all’estero. In particolar modo, in Medio Oriente e nel mondo islamico in generale, il rafforzamento elettorale, i risultati positivi del partito di governo turco in economia e politica estera, sono diventati elementi che hanno irrobustito la posizione di chi ha sempre valutato positivamente la possibilità di un partito di governo islamico moderato e democratico. In questo periodo che va dal 2002 a oggi, il governo di Erdogan oltre che per lo sviluppo e il rilancio dell’economia turca si è contraddistinto anche nell’ambito della politica estera. Infatti, nel 2003 Ahmet Davutoğlu, professore universitario in Relazioni Internazionali, ha pubblicato un libro dal titolo: La Profondità Strategica e la Crisi Globale che rivoluzionerà la politica estera turca. Dal 2002 eminenza grigia dell’AKP nel settore della politica estera, l’ascesa politica di Davutoğlu ha raggiunto il suo apice nel 2009 quando è stato nominato ministro degli esteri.
Dall’inizio della sua collaborazione con il governo di Erdogan ad oggi, Davutoğlu ha portato avanti un disegno di politica estera ben definito e che in molti hanno ribattezzato come neo-ottomano. Alla base di questa politica, vi è l’obiettivo di liberare la Turchia da una posizione regionale, che dalla fine della seconda guerra mondiale a quella della guerra fredda è stata caratterizzata dall’immobilismo e da un’evidente impotenza negli affari regionali. Gli elementi basilari della dottrina della Profondità Strategica possono essere individuati in tre pilastri:
- Rivedere le alleanze tradizionali, aprire nuovi canali di cooperazione e collaborazione con le nuove potenze emergenti (Cina, Russia, Iran, India e Brasile).
Questo primo pilastro non ha come obiettivo quello di porre fine o indebolire la partnership con l’UE e gli Stati Uniti, bensì creare una nuova rete di rapporti che diano maggiore respiro alla politica estera del paese. Inoltre, vi è la presa di coscienza della leadership turca dell’ascesa di un mondo multipolare caratterizzato dall’espansione politica ed economica di nuove potenze. Tuttavia, da questo primo elemento si evidenza anche la volontà turca di voler bilanciare e allentare la sua dipendenza dall’Occidente per aprirsi a nuove collaborazioni più congeniali ai suoi interessi nazionali. Riguardo a ciò, è necessario evidenziare come la Turchia, in particolar modo in Medio Oriente, abbia come obiettivo quello di affermarsi come piattaforma strategica per gli equilibri e la risoluzione delle crisi regionali.
- Identificare lo spazio geografico ex-ottomano dove concentrare risorse e progetti per una maggiore influenza politica, economica e culturale.
I territori di antico dominio ottomano sono stati identificati da Davutoğlu di vitale importanza. Infatti, al fine di sfruttarne i legami storici e culturali, questi Stati sono considerati affini agli obiettivi della Turchia e dunque da includere nella sua sfera d’influenza regionale. In Medio Oriente, in particolar modo Siria, Iran e Iraq sono considerati degli Stati con cui è necessario avere rapporti orientati in favore dell’affermazione della Turchia e del suo ruolo leader per gli equilibri politici ed economici della regione. Inoltre, uno degli obiettivi che stanno alla base della dottrina di Davutoğlu per il Medio Oriente è quello di creare una rete di rapporti pacifici e costruttivi in favore anche della risoluzione delle questioni ancora pendenti nella regione. La riuscita di questa missione poggia sull’efficacia sia della strategia “zero-problemi con i vicini”, sia di una diplomazia “pro-attiva” volta al dialogo e dedita all’applicazione degli strumenti del “soft power“.
- Allargare l’influenza turca aldilà dello spazio ex-ottomano.
Con questo terzo pilastro Ankara, conformemente alle sue ambizioni, ritiene necessario fare della Turchia un modello economico e politico da esportare nel mondo islamico rinvigorendo i legami con paesi come l’Afghanistan, l’Indonesia e il Pakistan. Questo terzo elemento, che comprende come aree d’interesse sia il Medio Oriente sia l’Asia Centrale, punta all’espansione in queste regioni di un modello di sviluppo economico e politico attraverso uomini d’affari turchi, formazione scolastica, costruzioni di infrastrutture e l’operosità di diverse ONG nazionali.
Analizzando il ruolo avuto dalla dottrina di profondità strategica in Medio Oriente è possibile delineare il modus operandi della Turchia nella gestione dei rapporti con le più rilevanti potenze dell’area. Inoltre, essendo in una regione tra le più instabili, diventata interessante capire in che modo la Turchia, da potenza emergente e forza economica egemone dell’area, abbia portato avanti i suoi progetti. Sopratutto in seguito agli sconvolgimenti della “primavera araba”, la Turchia e le sue politiche hanno evidenziato limiti e punti di forza. Uno degli eventi che hanno rappresentato per Ankara un cambiamento della propria politica estera regionale è stata la guerra in Iraq nel 2003. Questa ha profondamente mutato la percezione e la considerazione della Turchia verso il Medio Oriente. Infatti, la presenza nella regione d’importanti risorse energetiche e idriche, la costante presenza d’instabilità politiche legate a conflitti etnico-religiosi, hanno spinto Ankara a modificare il proprio approccio verso gli Stati della regione. Storicamente, la politica turca nel Vicino Oriente è stata basata sul mantenimento dello status-quo regionale, equilibrio di potenza, multipolarità ed un evidente dipendenza dagli alleati occidentali attivi nell’area.
L’AKP fin da subito ha tentato di cambiare questo schema per avviare in Medio Oriente una politica estera basata sui cardini della dottrina di profondità strategica, affiancata dalla strategia di zero-problemi, una diplomazia pro-attiva e una politica multidimensionale. L’applicazione della strategia “zero-problemi” prevede la creazione di uno spazio regionale sicuro dove Ankara oltre ad assumere un ruolo leader vuole appianare le controversie ancora pendenti tra lei e i suoi vicini attraverso gli strumenti del soft power e stesso tempo rilanciare i rapporti economici con gli attori dell’area. La scelta di una diplomazia pro-attiva invece, ha come obiettivo quello di rendere la Turchia sia un attore capace di mediare tra le parti in conflitto, sia essere maggiormente inclusa negli affari regionali. Da ciò è possibile evidenziare il sostegno da parte di Ankara verso le molteplici iniziative di dialogo, confronto bilaterale e multilaterale da essa stessa sponsorizzate. Infine, una politica multidimensionale basata sulla necessità di differenziare i contenuti della politica estera in favore di una maggiore considerazione delle dinamiche culturali, storiche e confessionali presenti nella regione. L’obiettivo è di abbandonare l’utilizzo di una politica estera monodimensionale basata solamente sugli aspetti nazionali e territoriali di uno Stato, bensì puntare sul rafforzamento dell’interdipendenza economica, della pluralità e della coesistenza culturale.
Dietro questo complesso e accattivante progetto, l’interesse turco per una sua maggiore influenza e presenza in Medio Oriente è legato a questioni di politica interna. Tuttavia, la Turchia con Davutoğlu sta tentando di creare un modello politico, economico e culturale da espandere in Medio Oriente e nel Nord Africa per creare un “giardino di casa” pacifico e sicuro per lo sviluppo del commercio e della potenza economica turca. In primo luogo, ciò che lega Ankara fortemente a quest’area, oltre al retroterra storico ottomano e le sue ingenti risorse, è la “questione curda” e il terrorismo portato avanti dal Partito dei Lavoratori Curdi (PKK).
Questo problema, che coinvolge strettamente Turchia, Siria, Iran e Iraq, ha acquisito a partire dall’invasione statunitense in Iraq nel 2003 un’importante rilevanza per gli stati sopra elencati. Da ciò, l’interesse per la Turchia di collaborare e cooperare, attraverso l’applicazione della “profondità strategica” e della politica “zero-problemi”, con i paesi vicini per la risoluzione di tutte le dinamiche legate alla questione curda che potrebbero innescare dei sconvolgimenti territoriali e di sovranità lungo i suoi confini sud-orientali abitati in prevalenza dai curdi.
Un secondo elemento di fondamentale importanza per la Turchia è la questione delle risorse energetiche e il loro trasporto dal Medio Oriente verso i mercati europei. Attualmente la gran parte del petrolio e del gas, nonostante l’impegno turco nella costruzione di nuove autostrade energetiche nel suo territorio, percorre strade che non hanno ancora reso la Turchia quel “Hub” energetico sognato dalla leadership turca nell’ultimo decennio. La volontà di Ankara di sfruttare la propria posizione geo-strategica attraverso la costruzione di gasdotti e oleodotti ha incontrato numerose difficoltà: in primo luogo, la presenza nell’area di potenze quali la Russia e gli Stati Uniti che non vedono positivamente la concorrenza turca. Inoltre, la presenza lungo i confini di cellule del PKK attive e dedite al sabotaggio. Tuttavia, l’obiettivo primario di Ankara resta quello d’incrementare il proprio ruolo nell’ambito della sicurezza
Sul fronte del trasporto del gas con l’Iraq, al momento non esiste un gasdotto, bensì un progetto per la sua costruzione firmato nel 2007 tra il Ministro turco per l’energia e il Ministero iracheno per il petrolio. La realizzazione di questo ambizioso progetto, nonostante non sia stata ancora decisa la data per l’inizio dei lavori, permetterebbe da una parte di diversificare maggiormente l’approvvigionamento energetico dell’Europa e dall’altra incrementare il ruolo di “Hub” di Ankara. Il colosso energetico del Medio Oriente resta comunque l’Iran con le sue grandi riserve di gas e petrolio. Ankara è un importante importatore di risorse energetiche iraniane e l’Iran è il secondo esportatore in Turchia. Nel 1996, i due Stati hanno firmato un accordo dalla durata di 25 anni per la costruzione di un gasdotto. Una volta completato il collegamento Tabriz-Erzurum, nel 2001 il gasdotto ha iniziato a funzionare con una capacità di trasporto annua di 10 miliardi al m³. Tuttavia, il continuo cambiamento dei prezzi del gas iraniano e la sua qualità non sempre in linea con gli accordi, ha causato più volte l’interruzione del gasdotto.
Un progetto di vitale importanza per le ambizioni energetiche di Ankara è il Persian Natural Gas Pipeline Project. Questo gasdotto di 3,300 Km e con una capacità massima di 37-40 miliardi al m³, dovrebbe trasportare il gas dall’Iran all’Europa attraverso la Turchia. Ankara e Teheran nel 2008 hanno firmato un accordo per la costruzione del gasdotto, tuttavia, le sanzioni economiche imposte dall’Unione Europea contro il nucleare iraniano hanno bloccato i lavori per la costruzione di un’infrastruttura energetica che renderebbe Ankara un attore regionale ancora più importante nell’ambito della sicurezza energetica. Infine, il gasdotto “Arabo” che si estende per 1,200 km con una capacità di trasporto di oltre 10 m³ di gas annui dall’Egitto avrebbe dovuto raggiungere entro il 2011 il mercato turco. Questo progetto che include Egitto, Siria e Turchia rappresenta un’opzione utile all’Europa per approvvigionarsi di risorse energetiche. Tuttavia, gli accordi raggiunti tra Egitto e Turchia, prima nel 2004 per la costruzione del gasdotto e poi nel 2008 per una maggiore cooperazione energetica tra i due paesi, non hanno permesso un sostanziale aumento della quantità di gas trasportato. Ad oggi, la quantità di gas che arriva in Turchia dall’Egitto è rimasta molto bassa e gli stravolgimenti politici causati dalla “Primavera Araba” hanno seriamente minato la credibilità e l’efficienza di questo importante progetto energetico.
Questi gasdotti e oleodotti in Medio Oriente evidenziano come la Turchia sia fortemente inclusa nella rete energetica regionale. Detto ciò, risulta fondamentale un’analisi dei rapporti bilaterali della Turchia con gli Stati individuati dalla dottrina di profondità strategica come vitali per gli interessi geopolitici di Ankara al fine di delineare come l’applicazione di questa politica estera abbia dal 2003 ad oggi tentato di rendere la Turchia un attore leader dell’area. I rapporti tra la Turchia e l’Iraq, del post-Saddam Hussein sono diventati un importante prova per l’applicazione della dottrina di profondità strategica. Questa apertura verso il nuovo Stato iracheno ha coinciso con una forte recrudescenza della questione curda, aprendo così un ampio dibattito interno. Da qui la necessità, d’intavolare fin da subito sia con il Governo Centrale sia con il Governo Autonomo curdo del Nord-Iraq delle trattative per la normalizzazione e il rilancio dei rapporti sulle basi della cooperazione e della sicurezza regionale. Da ciò, nel 2003 l’avvio da parte della Turchia del “Iraq’s Neighbouring Countries Process”. Un progetto che ha coinvolto i paesi dell’area al fine di sostenere il ritorno dell’ordine e della stabilità in Iraq entro il 2008.
Un importante elemento nelle relazioni tra Turchia e l’Iraq è la presenza d’importanti giacimenti petroliferi nella zona di Kirkuk. Ankara, nell’ambito dello sviluppo delle sue reti energetiche, ha iniziato a sostenere e concludere accordi commerciali con la minoranza turcomanna presente, in modo d’aumentare la propria influenza in un area economica di prim’ordine ma occupata in prevalenza da curdi. Nel 2008, la Turchia, sempre nell’ottica di creare una attorno a sé un vicinato pacifico e stabile, ha istituito con l’Iraq un Alto Consiglio di Cooperazione Strategica a cui hanno fatto seguito la firma di 48 memorandum in favore dello sviluppo di una partnership economica turco-irachena nei settori dell’energia e del commercio transfrontaliero. I più rilevanti risultati raggiunti da questa cooperazione sono stati: l’apertura nel 2010 di un Consolato Generale a Erbil a cui hanno fatto seguito quelli di Basra e Mosul. Sul fronte economico, nel 2011, secondo le stime del ministero del commercio turco, il mercato iracheno è diventato il secondo più importante per le importazioni dalla Turchia.
Quest’ultimo dato, trae origine dall’importante ruolo che ha avuto Ankara nel processo di ricostruzione del paese mesopotamico. Lo sviluppo delle relazioni economiche è stato graduale ed è continuato fino ai nostri giorni con importanti risultati. Ad esempio, nel 2003 gli scambi bilaterali sono stati pari a 940 ml $, nel 2010 hanno raggiunto i 6 mdl$ e nel 2011 questa cifra è stata raddoppiata arrivando a 12 mdl$. Dopo la Cina, la Turchia è il secondo paese straniero con il più alto numero di compagnie economiche (energia, agricoltura e progetti industriali) presenti sul territorio iracheno, ben 117. Nel 2007, i progetti d’investimento turchi in Iraq sono stati 39 con un ammontare di 549 ml$, nel 2008 invece, questi sono balzati a 72 raggiungendo 1,43 mdl$. Nonostante la volontà della Turchia di stabilire delle proficue relazioni, nel post-Saddam Hussein, con l’Iraq dei sunniti e curdi, questo progetto al momento sembra aver avuto delle pesanti battute d’arresto a causa della presenza nel paese della potente influenza sciita dell’Iran. Dal 2010, la strategia di Ankara si sta dimostrando un percorso ricco di insidie e dagli imprevedibili risvolti. Infatti, il modus operandi turco se da una parte ha permesso il dialogo e il confronto con tutti gli attori presenti nel territorio iracheno, dall’altra ha innalzato l’animosità e l’ostilità tra questi e spinto l’Iran ad una maggiore presenza per evitare di perdere la propria influenza in favore di Ankara.
Le contese principali che si giocano in Iraq sono molteplici: i proventi economici della regione petrolifera di Kirkuk, l’attivismo incontrollato del PKK, le continue tensioni tra Baghdad e il Nord curdo. Tutto ciò rende la posizione regionale della Turchia di fondamentale importanza ma ad oggi la dottrina di profondità strategica non sembra esser riuscita a dare una soluzione duratura e proficua per gli interessi turchi. Di fatto, all’interno dell’analisi del caso iracheno, la dottrina di profondità strategica vive un pericolo paradosso. Più la Turchia con la sua politica estera cerca d’insinuarsi negli equilibri e nelle dinamiche dell’Iraq più perde la capacità di svolgere un ruolo costruttivo e riformista. Il noto modo di gestire le popolazioni noto come “divide et impera” potrebbe rilevarsi molto pericoloso per la Turchia. Aver appoggiato tra il 2010-2011 la vittoria elettorale del blocco sunnita in Iraq non ha di certo facilitato la politica turca in Iraq. Se la Turchia continuerà ad investire nello sviluppo economico e politico del paese, alla lunga la sua influenza avrà la meglio sull’ombra sciita dell’Iran. Tuttavia, Ankara potrà considerarsi soddisfatta in Iraq soltanto quando avrà normalizzato e posto fine alla questione curda, ma questo problema coinvolge anche altri paesi come la Siria e ciò complica ulteriormente le cose.
Un evento che ha letteralmente scosso tutto il Medio Oriente e aperto nuove opportunità e sfide per la Turchia è stata la “Primavera Araba”. Dal 2010 a oggi passando dalla Tunisia all’Egitto e all’ancora aperta questione siriana, la Turchia si è trovata di fronte ad un mondo arabo desideroso di cambiamento e riforme. Ankara, dopo aver per un decennio rilanciato e rafforzato le relazioni economiche, politiche e culturali con gli stati arabi dominati da regimi autoritari, è stata costretta a mettere alla prova la tenuta della dottrina di profondità strategica e la sua politica di zero problemi con i vicini. Ebbene, se con Tunisia ed Egitto queste politiche sono rimaste sui binari della coerenza e della credibilità, tutt’altro di può dire per i casi di Libia e Siria. Gli interessi erano differenti e ciò ha imposto ad Ankara delle scelte che sembrano essere lontane dai dettami della politica estera di Davutoğlu.
La possibilità per la Turchia di svolgere un ruolo da leader regionale nelle intricate trame della “Primavera Araba” non è si sta rivelando un opzione semplice ma ricca di ostacoli e costi. Dinanzi alla caduta del regime libico la Turchia ha avuto molte esitazioni nell’appoggiare un intervento internazionale in favore della caduta di Gheddafi. Questo, sia per via degli importanti interessi economici dei turchi in Libia, sia per non vedere svanire l’influenza politica ed economica acquisita dal 2003 da Ankara in Medio Oriente e nel Nord Africa. Erdogan, volendo evitare un pericoloso isolamento regionale ed una frattura con gli alleati occidentali è stato costretto a piegarsi in favore dell’intervento esterno accentando di fatto il fallimento della dottrina di profondità strategica sulla Libia e la sua volontà di non intromettersi negli affari interni di un altro paese nel rispetto della sua sovranità.
La crisi siriana per la Turchia può e deve essere considerata come un altro elemento di frattura nella propria politica estera e nelle relazioni con il paese di Bashir Assad. L’AKP di Erdogan, dal 2003 fino alle soglie delle rivolte popolari siriane, ha portato avanti un progetto molto chiaro e ambizioso: riportare la Siria nella cerchia dei paesi amici della Turchia attraverso un incremento delle relazioni economiche, culturali e politiche. Sempre in quest’ottica, la dottrina zero-problemi aveva come fine quello di circoscrivere e gestire nel migliore dei modi le questioni ancora pendenti tra i due stati: la questione curda, la contesa sulle risorse idriche e quelle territoriali. Inoltre, Erdogan fino al 2011 ha fortemente investito sulla necessità di far uscire la Siria dall’isolamento internazionale per riabilitarla e attraverso il ruolo di mediatore di Ankara spingerla alla normalizzazione delle relazioni con Israele. A questi elementi, vanno legati degli interessi molto più pragmatici: la necessità da parte di Ankara di avere una Siria stabile per evitare ulteriori problemi con la minoranza curda, tutelare il commercio regionale e i suoi investimenti economici.
Inoltre, un dato da non sottovalutare è come il flusso commerciale tra la Turchia e i paesi vicini sia cresciuto progressivamente, tanto da raggiungere nel 2011 un volume di 82 mdl$, circa il 20% del commercio totale di Ankara. Nell’ambito invece degli scambi commerciali con la Siria è evidente quanto Ankara abbia investito nel paese di Assad. Nel 2003 il volume degli scambi commerciali era di 824,104 ml$, mentre nel 2007 questo è aumentato sensibilmente passando a 1,174,270 mdl$. Questo trend è perdurato anche nella seconda legislatura dell’AKP raggiungendo i 2,272,415 mdl$. Questo percorso di sviluppo è stato possibile anche grazie alla firma di diverse intese ed accordi negli anni precedenti. Ad esempio nel 2004, Turchia e Siria hanno stipulato un accordo bilaterale per la protezione e la promozione degli investimenti, successivamente un patto per il libero commercio bilaterale e nel 2009 come con l’Iraq un Alto Consiglio di Cooperazione Strategica.
Tuttavia, gli sforzi di Ankara, dal 2003 al 2011, nel legare economicamente a se la Siria e l’ambizioso progetto di creare un area di sicurezza, sono stati fortemente indeboliti dallo scoppio dell’attuale guerra civile. Nel 2011, le esportazioni turche verso la Siria hanno subito un calo del 12,7% rispetto al 2010. Stesso discorso per le importazioni che dal 2010 al 2011 sono diminuite del 20,9%. In generale, la bilancia degli scambi tra i due paesi, nell’anno preso in considerazione, ha avuto una flessione del 7,9%. Un dato questo che oggi preoccupa fortemente Erdogan e Davutoğlu.
Nel settore degli investimenti diretti esteri della Turchia in Siria, il trend non è molto differente dai dati appena menzionati. Infatti, molti progetti d’investimento sono stati sospesi e nel 2011 l’ammontare totale di FDI in Siria si è fermato a 700 ml $ a causa delle precarie condizioni politiche ed economiche del paese.
Sul fronte della strategia di politica estera, Ankara, allo scoppio delle rivolte in Siria e delle prime repressioni del governo, ha tentato di stabilire un basso profilo di attesa , quasi di supporto alle posizioni del regime di Assad. Erdogan, conscio degli elevati interessi economici della Turchia e degli ingenti sforzi propinati negli anni nella costruzione e sviluppo di buone relazioni con il vicino siriano, ha successivamente tentato la via del dialogo con Assad per spingerlo alla concessione delle riforme chieste dalla popolazione in tumulto.
In queste prime fasi, la posizione della Turchia è stata basata sull’utilizzo del soft power come indicato dalla dottrina di profondità strategica e dalla zero-problemi con i vicini. Tuttavia, nonostante l’accresciuta influenza negli ultimi anni della Turchia in Siria, Ankara non è riuscita a scalfire la volontà di Assad e l’acuirsi dello scontro con i ribelli ha innescato così un esodo di profughi dalla Siria. Erdogan, volendo evitare l’intervento armato delle potenze occidentali, in un primo momento ha indossato le vesti del paese mediatore come punto di riferimento nella regione per la risoluzione della questione siriana attraverso l’utilizzo del dialogo e del confronto, tuttavia senza ottenere risultati. Nella mente della leadership turca, vi è ancora oggi la necessità di evitare in tutti i modi una frammentazione politica della Siria. Questa, destabilizzerebbe l’intera regione innescando delle dinamiche legate alla minoranza curda, presente nel paese, che potrebbero seriamente minare i progressi fin qui ottenuti da Ankara nell’ambito della sicurezza regionale.
Il fallimento degli strumenti diplomatici per la risoluzione della questione siriana ha progressivamente acuito la paura in Ankara che ulteriori prove d’immobilismo e impotenza avrebbero minato la credibilità turca in Medio Oriente e permesso così l’avanzamento delle posizioni regionali di stati rivali come l’Iran e l’Arabia Saudita. Proprio in relazione ai rapporti tra Ankara e Teheran, la questione siriana e la progressiva opposizione della Turchia al regime di Assad hanno determinato un degrado dei rapporti turco-iraniani mettendo in grave difficoltà la politica zero-problemi della Turchia con l’Iran. Di fatto, il sostegno incondizionato di Teheran ad Assad ha posto in essere una situazione complessa per la leadership turca, la quale essendo l’unico attore rilevante della regione a rivaleggiare con l’Iran è stata costretta a schierarsi apertamente con l’opposizione siriana. Se Ankara si fosse allineata a Teheran in supporto del regime siriano, avrebbe pregiudicato la propria alleanza con l’Occidente rischiando un così un pericoloso isolamento.Le relazioni turco-siriane, dopo l’abbandono da parte di Ankara della via diplomatica e il conseguente appoggio logistico e umanitario fornito a popolazione e ribelli, hanno subito un graduale e pericoloso deterioramento.
Ciò è stato dovuto alle tensioni lungo il confine e al continuo flusso di profughi siriani verso la Turchia. I colpi di mortaio subiti dalla Turchia nei mesi scorsi e il pericolo di un possibile attacco di Assad alla base dei ribelli in Turchia hanno spinto Erdogan alla ricerca di una nuova soluzione della questione siriana.
Da qui, l’individuazione di un nuovo obiettivo: creare una Siria democratica e dominata dai sunniti in chiave anti-Iran e dare avvio alla creazione di un asse islamico moderato comprendente la Turchia, la Siria e l’Egitto di Morsi. Al fine di raggiungere questo ambizioso obiettivo, negli ultimi mesi Ankara ha portato avanti una politica verso la questione siriana che si muove su due binari. Il primo, evitare qualsiasi intervento unilaterale turco in Siria mantenendo un assetto difensivo, continuare a sostenere le forze ribelli e i profughi siriani e cercare allo stesso tempo di riaprire il dialogo multilaterale con gli attori regionali più importanti. Un esempio di ciò è stato l’incontro al vertice, in autunno di Bakù, dove Erdogan e il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad hanno discusso senza raggiungere particolari risultati, sulla possibilità di trovare una soluzione pacifica alla drammatica escalation di violenza in Siria. La Turchia ha più volte fatto presente la necessità di porre fine alla guerra civile siriana poiché il rischio di avere una Siria instabile permetterebbe al PKK di muoversi con più libertà sul territorio per le sue attività terroristiche contro Ankara.
L’altra manovra che Ankara sta portando avanti in questi mesi riguarda il rilancio della partnership strategica con l’Unione Europea e la NATO. Proprio su questo elemento si è basata la richiesta nel novembre del 2012 da parte di Erdogan, in virtù dell’alleanza che lega la Turchia alla NATO, di proteggere il territorio turco lungo il confine con la Siria attraverso il dispiegamento dei missili “Patriots”. Questo ritorno alla collaborazione della Turchia con gli alleati occidentali ha suscitato le proteste della Siria e del suo alleato russo, che hanno accusato Ankara di voler incrementare la tensione. Tuttavia, come dichiarato il 4 dicembre dal Segretario Generale della NATO Rasmussen, questi missili avranno una funzione di difesa e deterrenza da possibili attacchi contro la Turchia provenienti dalla Siria. L’incontro a Istanbul tra Putin e Erdogan del 3 dicembre ha invece riaperto una sottile breccia nel muro russo in difesa di Assad. Infatti i due leader dopo aver chiarito la questione riguardante i missili NATO in Turchia, hanno convenuto sulla necessità di porre fine alla crisi umanitaria siriana e di riportare l’ordine nel paese nel più breve tempo possibile. Il ritorno della collaborazione con l’Unione Europea, attraverso l’incremento congiunto con la Turchia delle sanzioni economiche verso la Siria, ha rilanciato un rapporto che negli ultimi anni si era raffreddato. Da questa cooperazione ritrovata, la Turchia potrebbe sfruttare in suo favore elementi come: la gestione congiunta dei campi profughi siriani al momento tutti a carico di Ankara, una maggiore libertà di manovra nella regione in funzione anti-Iran.
Tuttavia, la situazione al momento resta incerta e pericolosa per la Turchia. La possibilità iniziale di mantenere attiva la politica di zero-problemi con la Siria è fallita fragorosamente e la nuova posizione di Ankara, dopo diversi momenti di confusione, sembra essere in favore di una sua maggiore inclusione nei meccanismi dei suoi alleati occidentali. Infatti, se da un lato Erdogan ha dovuto perdere l’alleanza della Siria e i tanti progressi ottenuti con il paese di Assad dal 2003 al 2011, dall’altra sta avendo la possibilità di rilanciare nel Medio Oriente la figura di una Turchia moderna, democratica e riformista. Un modello che, nonostante le difficoltà e l’incapacità economica di sostenere da sola politiche più unilaterali nella regione, potrebbe, sempre con l’assistenza degli alleati occidentali, rappresentare il punto di riferimento dei nuovi stati partoriti dalla “Primavera Araba”. Dunque, oggi la dottrina di profondità strategica e quella di zero-problemi con i vicini sembrano essere diventate più flessibili e più aperte alla collaborazione con gli storici alleati di sempre. Il problema curdo, la necessità di contenere l’Iran nella regione e gli ingenti interessi economici hanno imposto questo tipo di evoluzione della politica estera turca.
La Libia ha insegnato alla Turchia che nonostante i progressi economici e politici raggiunti dal 2003 ad oggi, essa non è ancora in grado di sostenere da sola i costi di una politica unilaterale nella regione e in contraddizioni con le posizioni occidentali. Ciò, è stato un duro colpo per la dottrina di Davutoğlu. Il caso Siriano, invece, anche se ha causato la distruzione delle relazioni turco-siriane ha permesso alla Turchia di mostrarsi per quello che realmente è. Una potenza regionale in espansione, che nei prossimi mesi potrebbe raggiungere parte dei suoi obiettivi grazie alla collaborazione con l’Occidente e ad un dialogo costruttivo con gli attori rivali della regione.