Anna Lombroso per il Simplicissimus
…. Dobbiamo essere all’altezza della promessa fatta di fronte al nostro continente in rovina: «Mai più» …. La nostra maggior responsabilità è di fronte al genere umano. Se continuiamo ad alzare muri, chiudere frontiere, lasciando il lavoro sporco ad altri stati perché siano loro a fare da gendarmi delle nostre frontiere, che messaggio lanciamo al mondo? Che volto dell’Europa riflette questo Mare Mediterraneo coperto da corpi senza vita?…. Noi, le città europee, siamo pronte a diventare luoghi d’accoglienza. Noi, le città europee, vogliamo dare il benvenuto ai rifugiati e alle rifugiate. Sono gli Stati a riconoscere lo statuto d’asilo, ma sono le città a dare sostegno. Sono i municipi lungo le frontiere, come le isole di Lampedusa, Kos e Lesbos, i primi a ricevere i flussi delle persone rifugiate; e sono i municipi europei che dovranno accogliere queste persone e garantirgli di poter iniziare una vita, lontano dai pericoli da cui sono riusciti a scappare….
Sono queste frasi estrapolate da un appello sottoscritto da sindaci di gandi e piccole città europee, che prosegue: da Voi, governi degli Stati e dell’Unione Europea, dipende che questa crisi umanitaria non si trasformi in una crisi di civiltà, una crisi dei valori fondamentali delle nostre democrazie. Durante anni, i governi europei hanno destinato la maggioranza dei fondi per l’asilo e le politiche migratorie a blindare le nostre frontiere, convertendo l’Europa in una fortezza…
Non mi sono stupita se in calce a questo appello l’unica firma italiana è quella di Giusi Nicolini, sindaca di Lampedusa. Manca quella di Marino, manca quella di Nardella, manca anche quella di Pisapia. Magari non si sono accorti di questo richiamo a dovere e responsabilità, passato accuratamente sotto silenzio dalla stampa. Magari in qualcuno ha avuto il sopravvento la “ragion di municipio”, la preoccupazione di perdere il consenso degli operosi cittadini lombardi che tacciono sulla misura punitiva ipotizzata dal governo della loro regione nei confronti degli alberghi che decidono di ospitare profughi. Magari da uomini di mondo, pragmatici e fattivi, si sono persuasi dell’inutilità di appelli e petizioni: e sarebbe un inedito in un paese dove una firma in calce non si nega mai. Magari sono europeisti talmente convinti da accettare supinamente il giogo dei patti di bilancio, da approvare muri e recinti, da contribuire e acconsentire nel loro piccolo a invasioni di Muos, trivelle, Tav, che disapprovano le critiche alla matrigna severa, ma giusta. Magari qualcuno, ma è una supposizione fantasiosa e probabilmente infondata, ha tratto profitto elettorale o addirittura finanziario dal brand dell’immigrazione, dal business più infame degli ultimi 150 anni., la speculazione a tutte le latitudini sulla disperazione di popoli in fuga.
Oppure semplicemente sono talmente contratti, ingabbiati, avviliti dal diktat più potente che viene dall’ideologia dominante: la proibizione a pensare a un’alternativa, la condanna del pensiero critico come fosse una colpa, la censura dell’utopia come fosse un’eresia, che non riescono a immaginare soluzioni civili, soluzioni umane, soluzioni responsabili, preferendo rovesciare su altri lagnanze e negligenze, preferendo delegare ad altri competenze e doveri, preferendo essere esautorati piuttosto che decidere, scegliere, governare.
Certo la sfida è ardua. La certezza amara che la bellezza non ci salverà, ripresa proprio in questi giorni da Salvatore Settis viene confermata da quello che succede nelle nostre città, grandi e piccole, impoverite dai debiti ma soprattutto, idealmente e politicamente, da una impotenza imbelle fatta di incompetenza, ubbidienza a lobby e rendite, sottomissione a potentati privati locali e non, dove la fa da padrona una forma di corruzione particolarmente subdola, quella dell’inerzia, dell’ammuina, del laissez faire, dell’inanellarsi di progetti che restano tali, perché l’astenersi dal realizzare rende di più dell’azione, mediante promesse, incarichi continuamente rinnovati, studi da chiudere nel cassetto, consulenze e commissioni oggetto di ostensioni periodiche come prova di efficienza, ascolto dei bisogni, volontà di agire.
E suona retorico dire che quella dell’arrivo di profughi, in verità in misura minore che in altri paesi – che il nostro assume sempre di più il carattere di una tappa indesiderata, e non è difficile spiegarselo – potrebbe essere un’opportunità per ragionare su modelli che non ripetessero pedissequamente sul territorio le disuguaglianze, grazie a un’urbanistica negoziale volta solo a assecondare poteri proprietari e ridotta a scienza del controllo sociale. Che moltiplica il format dei ghetti: su in altipiani lussureggianti quelli del lusso, protetti da guardiole, muri elettrificati, chiodi che vengono su dal selciato, vigilantes, giù o oltre, periferie favelas, bidonville, dove a poco poco silenziosamente si sono trasferiti vicini che non vediamo più, lasciati “marcire” nell’incuria, nell’abbandono, del degrado in modo da prepararsi a “accogliere” altri diseredati di altri colori, altre lingue, altre disperazioni, in modo che quello che era incivile diventi disumano, che il malessere diventi rancore, che il malumore diventi violenza da riversare su chi è più debole, su vite nude, senza docuemnti, senza identità, senza niente da perdere.
Città dove la rivelazione della morte in un condominio si ha dopo due anni per via dell’odore che aleggia e che si è cercato di contrastare incerottando la porta, dove a fronte di centinaia di alloggi vuoti e mai finiti centinaia di “senzatetto” di varia natura sono costretti a entrare nelle geografie dell’illegalità. Città dove impera il brutto, mentre il bello è trasandata, trascurato in modo che sia più facile, nell’indifferenza o nell’accettazione comune, darlo in affidamento. Città dove intorno alle cattedrali della modernità, torri di cristallo che si ergono specchiando sulle loro facciate la lontananza remota e crudele, si spargono insediamenti estemporanei frutto di un’urbanistica contrattata con i boss immobiliari, senza programmazione, senza pianificazione, senza progetto. Città dove le piazze, i luoghi dell’incontro e del ragionare insieme sono sostituite dai centri commerciali dove echeggia la monotona e pervasiva nenia della musica ambient lounge inframmezzata dai comunicati commerciali, dalle offerte, dalle occasione del gran mercato delle illusioni e dove si ricoverano individui che hanno perso la qualità di cittadini e perfino quella di consumatori, ridotti da nuove povertà a guardare senza toccare.