Proibito

Da Bibolotty
Ovvero: L'educazione negativa.
Proibizioni, confini fisici e mentali, compiti da fare quotidianamente a costo d’interrompere il bla bla senza senso ma gioiso, il gioco, supervisionato dall’adulto di turno che non fa che intromettersi con consigli che hanno tutta l’aria di essere ordini, le molestie della carne infilata in bocca a tutti i costi, lo schiaffo, l’urlo. Dal mio balcone ma anche in spiaggia non posso fare a meno di osservare un’infanzia guardata a vista, bimbi che non passano un minuto da soli, privati della sacrosanta libertà d’infilarsi le dita nel naso o di litigare e prendendosi a botte e facendosi male. Piccoli mostri che piangono di continuo tra genitori che li educano urlando, che insegnano loro le buone maniere trascinando sedie discutendo a suon di parolacce. Allora penso alla mia infanzia felice e alle lunghe giornate da bambina privilegiata.
Ho vissuto spazi immensi e, parafrasando Marìas, del mio tempo inutile ho fatto tesoro.  Nessuno ha mai segnato confini della mia libertà ed è forse per questo che ho sempre rispettato quella degli altri. I miei erano spazi in cui mi muovevo senza controllo e in solitaria. Come un gatto, pretendevo e prendevo carezze e attenzioni dai grandi solo quando ero io a volerlo, per il resto del tempo attraversavo campi coltivati o brulli in cerca di antichi tesori e storie di terrore. Dopo le prime forti resistenze di mia madre al mio cibarmi di fiori se avevo sete e di formiche se avevo fame, sono cresciuta a forza di auto medicazioni. Sputi belli grossi disinfettavano le ferite, l’aglio andava sulle punture d’insetti –come la pipì- e la preghierina a Gesù puliva la caramella caduta. Mangiavo fragole che sapevano di terra e la frutta dagli alberi. Sapevo quali bestie temere e quali no. Come trattare cani e gatti selvatici, e gli adulti sconosciuti, se mai ne avessi incontrati. Di orchi ce n’erano anche allora, e anche tanti. Ma non sono mai stati una ragione per privarmi della mia libertà.
Ero un po’ acrobata, e anche su questa pericolosa ambizione –quella di partire presto con un circo- i miei sorvolavano fingendo di sorridere o d’ignorare il mio dondolare a testa in giù dal ramo più alto del pero. La bambina deve imparare da sola, ripetevano pallidi guardandomi fare lo scivolo sulla ringhiera delle scale o correre su e giù saltando tre gradini per volta. Il vizio di andare indietro con la sedia, a tavola, fino a cadere, appartiene un po’ a tutti, anche alla bimbetta che mi abita di fronte e che ogni volta, al contrario di me, le prende di santa ragione. Ho avuto genitori bellissimi e un po’ filosofi che danzavano di notte e che io spiavo nascosta per le scale. Due che avevano l’aria di saperne più di me e che io amavo e amo, due adulti con una vita propria cui badare, libri, lavoro e feste al sabato sera.   Le proibizioni imposte erano poche e avevano sempre un perché ragionevole, e forse la loro sfortuna è stata che quando le ragioni hanno perso motivazioni pratiche acquisendo un senso morale che io, dai miei dodici anni, proprio non riuscivo a vedere, non hanno potuto far altro che guardarmi vivere. Per natura ribelle e non cattiveria.
Gesù ce l’avevo di fronte al letto e lo vedevo ascendere al cielo ogni sera in un tripudio di luci. Era una presenza benefica e irreale, una favola triste di un sacrificio inutile. Era la messa con i nonni di domenica, la partecipazione a un rito che ci univa, le caramelle zuccherine che, per ogni risposta giusta di catechesi, nonna mi dava. Nessun dogma, solo una vicinanza mistica che avrei in seguito scelto o abbandonato.
In inverno setacciavo la villa in cerca delle prove della mia adozione e con la speranza che mi mandassero presto in collegio per condividere con altri bambini le mie perplessità sull’esistenza terrena. La fantasia era l’unica amica necessaria. Le estati erano bollenti, lunghissime e piene di avventure. Con uno stuolo di cani come scorta, quelli che papà adottava e curava, in compagnia della fionda e della bicicletta, mi raccontavo storie fantastiche rimaneggiate dai grandi classici imparati a memoria durante l’inverno. Andavo spesso fino alla clinica psichiatrica che in una villa liberty a pochi chilometri da casa conteneva, nella mia mente bambina, tutte le iniquità adulte. Con alcuni pazienti, dal ramo più alto del grande fico che abbracciava il muro di mattoni rossi, chiacchieravo del più e del meno mentre alle suore lanciavo frutta fresca in cambio di caramelle alla menta. Le merendine non esistevano o comunque non a casa nostra. C’era il gelso vicino al frantoio e la lunga altalena. Le uova fresche di Ciccillo il contadino e le mandorle acerbe che dissetavano. C’era papà, che c’insegnava le canzoni della pioggia e vecchie storie contadine e che assieme a noi sorelle si rotolava nel fango per far spaventare mamma, spuntando all’improvviso dietro la finestra della sala da pranzo. Papà che assieme a noi inventava strane lingue e le vite degli animali, vecchi conti e principi decaduti rinati bestie per il loro comportamento ingiusto. Un padre romantico che ci mostrava la luna e sotto la sua luce la forza della poesia.
La mia infanzia è stata corse a perdifiato e facce arrossate, cadute e sassaiole, tornei a campana e palla avvelenata. Il mio corpo era un campo di battaglia, pieno di ferite e prove di forza. Dopo la pioggia invernale la resina era saporita gomma da masticare, e poco importava del fango che sporcava e del freddo che ammalava. Il letto l’ho conosciuto per le normali malattie esantematiche e mai per il raffreddore. La natura cura, non ammala mai. La stanza dei giochi era popolata da bellissime signore che venivano a trovarmi per l’ora del tè e che raccontavano intense storie d’amore. L’armadio di mamma era un grande atelier e il suo bagno l’istituto di bellezza dove ero parrucchiera e cliente, estetista e truccatrice e anche marito o amante che veniva a prendere la sua amata per il ballo. Lo specchio serviva per i litigi coniugali, dove io ero lei, lui e l’altra e interpretavo mille voci e storie che avevo ascoltato e visto e che drammatizzavo alla maniera di certi film in bianco e nero. Non ti amo più, diceva sempre lui alla donna, e ogni volta lei lo tratteneva piangendo: non lasciarmi mai, gli sussurrava in preghiera baciando lo specchio. Finiva sempre che lui se ne andava comunque e io cambiavo gioco un po’ seccata.
Ho ricevuto solo uno schiaffo in vita mia: prima lezione di latino rosa/rosae. Annuivo a mia madre che da un’ora mi faceva declinare e intanto alzavo gli occhi al cielo, guardando fuori dalla finestra in attesa di poter uscire. Pochi mesi dopo vidi l’insegna di un Teatro e dopo un anno avevo il mio camerino. Non era un circo ma poteva bastare. Nella libertà ho trovato la mia strada e la vera ispirazione, ho potuto guardare ovunque e scegliere, nessuno mi ha infilato paraocchi e nessuno ha mai deciso per me. Per questo, forse, l’eccezionalità della mia vita risiede in tutto ciò che è ordinario.


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :