Magazine Diario personale

Blogterapia parte 1 – Perché raccontare il cancro

Da Romina @CodicediHodgkin

Come vi accennavo tempo fa, voglio riproporvi qui sul blog gli argomenti che ho trattato al Convegno sulla Medicina Narrativa, così, giusto per mettere nero su bianco quello che ho avuto modo di capire mentre preparavo le slides.

Tanto per cominciare, un piccolo appunto: per evitare confusione, partiamo dal presupposto che la medicina narrativa non è esattamente quel che io faccio qui. Con medicina narrativa si intende una comunicazione tra medico e paziente tale per cui il dottore riceve dal paziente una serie di informazioni che possono contribuire a migliorare il suo lavoro sotto molteplici aspetti. Questo, almeno, a grandi linee, senza che io mi dilunghi troppo, ‘che lo sapete tutti come finisce quando mi dilungo.

Comunque, spiegare perché io racconto il cancro è qualcosa che ho sviscerato più volte nel corso di questi anni di Codice. I motivi, tuttavia, li potrei raccogliere tutti qui in una sorta di riassunto delle puntate precedenti, caso mai qualcuno si fosse perso degli entusiasmanti episodi della Romineide.

Ho iniziato a scrivere del mio linfoma perché avevo bisogno di distaccarmi dall’accaduto, di guardarlo dall’esterno. Avevo bisogno di elevarmi al di sopra di me stessa e guardarmi da una prospettiva nuova, d’insieme. Dovevo capire cosa avevo perduto per sempre, cosa potevo salvare, cosa era rimasto invariato. Potevo farlo solo distaccandomi da tutto. Nell’ambito dei cancer blogger io sono forse l’unica, almeno all’interno del team di Oltreilcancro, ad aver iniziato a scrivere della propria malattia dopo la fine delle terapie, quando tutto era teoricamente passato. Questo è successo perché per anni mi è stato detto di non parlarne più. Mi venivano ripetute frasi come “se sei guarita si vede che non era poi così grave” (eh no, ma infatti hanno sbagliato la diagnosi. In realtà era raffreddore) o “in fondo, è stato meglio di quanto pensassimo!” (peccato che l’ago nel port lo avessi io, non chi diceva queste idiozie). Io mi sentivo esplodere. Dal 2006 al 2010 io mi sono sentita soffocare ogni giorno. Avevo dei rigurgiti comunicativi che non potevo sfogare. Il silenzio cui ero stata ridotta stava rovinando la mia vita. Perdonatemi la metafora ma ero un palombaro che deve vomitare e non può perché il suo casco non glielo permette. Scrivere della mia malattia ha dato il via ad un lunghissimo percorso di autoanalisi che solo ora, dopo quasi cinque anni, forse mi ha portata dove volevo arrivare. E non è stato facile. Il dolore che c’è dietro tante cose che ho scritto io non so nemmeno spiegarlo. Io solo ora sono guarita. Non nel 2006, alla prima pet negativa.

Scrivere mi ha anche aiutato a conoscermi di nuovo. Quando si dice che la malattia incattivisce, si dice qualcosa di fondamentalmente sbagliato. Un’esperienza così totalizzante esalta alcuni aspetti della nostra personalità che sono comunque già presenti. Chi tende ad essere cattivo, si incattivirà ulteriormente. Chi è una persona pratica e attiva probabilmente si dedicherà al volontariato. Chi è logorroico come me (o in generale chi è portato alla comunicazione, anche di natura più essenziale) aprirà un blog. I lati che la malattia sottolinea erano già esistenti. Nascosti, forse, ma sicuramente presenti. Nessuno si conosce così profondamente da dire “io penso che farei questo, non quello”. Nessuno sa che tipo di reazioni, anche a lungo termine, potrà avere. A volte ci si stupisce di se stessi. E la persona nuova che si è bisogna imparare a conoscerla di nuovo e ad amarla. Scrivere aiuta anche in questo. E’un dialogo con se stessi per imparare a conoscersi di nuovo. Anche il corpo, ovviamente, non è più lo stesso, per me meno di altri, è vero, ma qualche falla nel sistema c’è. Conoscere di nuovo il proprio corpo, alcuni suoi nuovi meccanismi, avvertire certi suoi segnali, innamorarsene di nuovo o per la prima volta, è così importante…

Io ho sempre scritto anche per esorcizzare la paura. Chi si ammala, impara ad ascoltare il proprio corpo con una precisione ed un “orecchio” che ha quasi sempre solo chi ha avuto un corpo costretto ad urlare. Un po’come un bravo meccanico che capisce che qualcosa non va da un rumorino impercettibile. Perché diciamocelo, in contatto con noi stessi non ci siamo mai. Quando parli del parto, ad esempio, la maggior parte delle donne che sta per affrontarlo ti dirà che a spaventarla è proprio quella cosa che io ho percepito come la più magica: la totale perdita di controllo. Siamo sempre così impegnati a tenere tutto sotto lucido controllo, anche i più disorganizzati praticamente ed emotivamente, che l’idea di un’esperienza così “animalesca”, così ancestrale, così di puro istinto, spaventa. Questo perché non siamo abituati ad ascoltare il nostro corpo. Ma questo orecchio sensibile, ovviamente, non ci mette al riparo dalla paura. La paura è qualcosa con cui non sai mai se devi combattere, se ci devi convivere, se la devi ignorare. Nella mia esperienza, specialmente ora che sono madre, quel piccolo lumino di paura in fondo al cuore rimane. Il grande lavoro da fare è questo: imparare a circoscriverlo e gestirlo. Finché resta nel suo cantuccio, non fa niente di male. Ma per arrivare a questo equilibrio serve un grandissimo lavoro. Un lavoro che, senza blog, senza la possibilità di raccontarmi, io non avrei avuto.

E’inutile che ripeta per l’ennesima volta che viviamo in una società che, se hai il cancro, ti vede come un morto che cammina. Come uno che chissà che ha fatto per meritarselo. Io dico sempre che avere il cancro è come girare per Via dei Condotti con una iena al guinzaglio. Gli sguardi che ricevi sono sempre molto eloquenti. Nel momento della diagnosi, per la maggior parte delle persone che si incontrano nella vita di ogni giorno, si smette di essere persone e si diventa il cancro. Scrivere mi ha recuperata quando ormai mi stavo deumanizzando. Scrivere, anche se sembra paradossale visto che di cancro parlo, mi ha aiutato a tornare ad essere una persona e smettere di essere il mio cancro.

E poi perché…nessuno ne parla. Vuoi mettere quanto è liberatorio?

Questi sono i motivi che mi hanno spinta a raccontare la malattia. Quanto prima, vi spiegherò perché ho deciso di farlo sul web, ovvero: per quale motivo hai ritenuto d’aiuto far arrivare i beati fatti tuoi ai quattro angoli del mondo?

 


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