Inquietante, opprimente, a tratti spaventoso e angosciante. In una parola Project Zero
Nonostante stia attraversando un periodo di crisi a causa forse di una certa flessione creativa, almeno per quanto concerne le serie più famose, il survival horror è un genere che mantiene lo stesso un certo fascino sui suoi appassionati. E questo nonostante molti di questi ultimi si dicono "stanchi" di giocare a uno qualsiasi dei figli o figliastri dei nuovi Resident Evil, che dal loro punto di vista rappresentano ormai un'esperienza meno coinvolgente e stimolante rispetto al passato, vista la deriva action ormai intrapresa da molti di questi prodotti, a discapito dell'elemento orrore e tensione.
In tanti, in effetti, vorrebbero un ritorno alle origini per le loro saghe più amate, e magari la riproposizione di quei titoli di genere caduti un po' nel dimenticatoio, di cui si avverte l'assenza, come nel caso di Project Zero. Conosciuta negli Stati Uniti con il nome di Fatal Frame, questa serie targata Tecmo faceva dell'atmosfera inquietante ed opprimente, oltre che della presenza di spiriti e di tematiche legate a certe tradizioni giapponesi i suoi cavalli di battaglia. Andando a richiamare filmografia, tradizione e letteratura, la narrazione del titolo si dipanava lentamente in maniera perfetta, ingoiando il giocatore in un clima di sincera e reale angoscia da cui era davvero arduo fuggire. Se si escludono gli spin-off Real: Another Edition per telefonini cellulari, e Spirit Camera: Le memorie maledette per Nintendo 3DS, che nella nostra recensione è stato definito a suo tempo "banale sotto il profilo narrativo ed incapace di incutere la benché minima inquietudine", è dai tempi di Zero: Tsukihami no kamen per Wii, uscito peraltro solo in Giappone nel 2008, che una console casalinga non ospita un episodio della saga. E la cosa è a nostro parere particolarmente grave visto il potenziale di una delle serie più spaventose di sempre.
Project Zero
Era il 2001 quando su PlayStation 2 fece capolino il primo episodio di quella che da lì a poco tempo sarebbe diventata una delle serie horror più apprezzate nel panorama ludico mondiale. Quando Project Zero giunse sugli scaffali stupì tutti, e dopo un certo scetticismo iniziale riuscì a conquistare critica e pubblico, che gli tributarono un'accoglienza tutto sommato calorosa. In tanti, infatti, rimasero piacevolmente colpiti dall'intreccio narrativo del gioco, dall'atmosfera lugubre e da un'ambientazione assolutamente azzeccata. Senza dimenticare i fantasmi, tutti o quasi ispirati ai cliché classici degli spiriti asiatici, e la giocabilità. In un'epoca in cui il pubblico si divideva fra i fan di Resident Evil, coi suoi zombi, le sue armi e un certo tasso di violenza grafica, e quelli di Silent Hill, che aveva sconvolto i canoni imposti dal suo rivale di Capcom, coi suoi mostri scaturiti dall'inconscio e dal rimorso, Project Zero riuscì a porsi in mezzo ai due, proponendo un'altra forma di terrore.
Girovagando per la Himuro Mansion, una gigantesca e antica villa della provincia giapponese, non si poteva mai stare troppo tranquilli, non solo a causa di un'atmosfera forte e opprimente, ma anche perché sovente rumori, lamenti e apparizioni improvvise finivano per terrorizzare e far fare ai videogiocatori ben più che un salto sulla sedia. E quando uno spettro si fiondava svolazzando verso la protagonista era il panico: per difendersi non c'erano granate o armi assortite, d'altronde inutili ai fini pratici visto che in fin dei conti i nemici non erano certo fatti di carne, né si poteva reagire a colpi di mazza da baseball o tubi di ferro. Due, quindi, le opzioni a disposizione degli utenti, e cioè la fuga disperata lungo i corridoi della magione, col rischio concreto di imbattersi in altri fantasmi o di perdersi, oppure cercare di riprendere il controllo, respirare profondamente, e tirare fuori una vecchia macchina fotografica. Perché con quella, solo con quella si poteva fermare uno spirito. Una volta impugnata, la visuale passava in prima persona, un segnalatore in basso si accendeva di arancione segnalando l'area in cui lo spettro stava muovendosi, il pad vibrava realisticamente in accordo con i battiti del cuore di una spaventata protagonista, e bisognava individuare la figura fluttuante, spesso impercettibile, un attimo prima che ricomparisse e attaccasse. Solo allora, e dopo aver caricato adeguatamente dei simboli che comparivano nell'inquadratura si doveva premere il tasto relativo allo scatto fotografico. Più il colpo veniva caricato, più si era vicini al bersaglio, e più danni si potevano infliggere. Ovviamente molto dipendeva dalla "forza" dell'entità, dal livello di potenza della macchina (che poteva essere incrementata) e dal tipo di pellicola, visto che di quest'ultima ne esistevano di vario tipo e con funzioni esorcizzanti differenti. Ma non bastavano mai e bisognava fare molta attenzione a non sprecarne nemmeno una, razionando l'uso di quelle più efficaci in vista di qualche fantasma più potente. Oltre che per liberarsi di un nemico, la fotocamera serviva per vedere quello che l'occhio della protagonista, Miku, non poteva vedere, come per esempio degli spettri innocui o degli indizi utili per cercare Mafuyu Hinasaki, il fratello scomparso, e venire quindi a capo del mistero.
Project Zero 2
Forte del successo della sua nuova proprietà intellettuale, Tecmo si mise subito al lavoro per il sequel che gli sviluppatori volevano poggiasse ancora una volta sulle fondamenta di un gameplay estremamente classico e privo di particolari spunti creativi, ma allo stesso modo efficace. Fu così che nel 2003 gli utenti PlayStation 2 prima, e quelli Xbox dopo con una edizione speciale che conteneva qualche extra come la possibilità di giocare con una visuale in soggettiva, poterono mettere le loro mani su Project Zero 2. A livello di trama i punti di contatto tra quest'ultimo e il suo predecessore erano davvero ridotti all'osso, e in generale oltre alle meccaniche l'unico reale aspetto in comune fra i due titoli andava ricercato nello strumento principale a disposizione della protagonista, ovvero la vetusta macchina fotografica chiamata Camera Oscura. La storia questa volta ruotava attorno alle gemelle Mio e Mayu e alla loro scoperta, durante una passeggiata nel bosco, di un villaggio di cui in realtà non si era trovata più traccia, molti anni prima, dopo una misteriosa cerimonia notturna a cui tutti gli abitanti avevano preso parte.
Era proprio nella trama, nell'atmosfera e nel coinvolgimento che era in grado di offrire al pubblico che Project Zero 2 eccelleva.
La lentezza della narrazione e una certa non chiarezza di ciò che si doveva fare, il fatto di dover girovagare per degli ambienti cupi alla ricerca di indizi, intimoriti da scricchiolii e gemiti, ascoltando dei messaggi o leggendo frammenti di testo lasciati da precedenti "esploratori" o abitanti del luogo, finivano ancora una volta per ammaliare e catturare i videogiocatori, trascinandoli all'interno di un mondo pauroso. La sensazione opprimente di attraversare un villaggio maledetto venne ricreata alla perfezione sia dagli sceneggiatori che dagli sviluppatori e dai grafici. Certo, le animazioni delle protagoniste non erano il massimo, mostrandosi a tratti legnose e piuttosto slegate tra loro, ma l'impatto visivo generale, il gioco di luci e ombre, il senso di sporcizia di ambienti abbandonati da tempo, gli spettri, tutto era ricreato in maniera ottimale per i tempi.
Il successo dei primi due Project Zero convinse la DreamWorks a dare una pesante accelerata per la realizzazione di un film basato sul franchise, di cui aveva acquisito i diritti per una trasposizione cinematografica già nel 2002. Così, stando almeno a quanto riportò nel 2003 la rivista Variety, la stesura della sceneggiatura passò dalle mani di Robert Fyvolent e Mark R. Brinker a quelle di Steven Spielberg e John Rogers, con le riprese che sarebbero dovute iniziare nel 2006 in Giappone. Purtroppo ciò non avvenne mai e per i fan di Project Zero le uniche tracce del videogioco in un film si possono trovare solo sul mercato del porno asiatico, grazie a una parodia del secondo gioco intitolata Lusty Brown Butterfly.
Project Zero 3
Uscito a luglio del 2005 in Giappone, mesi dopo il rilascio su GameCube del "rivoluzionario" (per il genere) Resident Evil 4, le sue meccaniche apparvero fin da subito obsolete: improvvisamente il pubblico sembrò accorgersi più che in passato della legnosità delle animazioni dei personaggi e della lentezza di fondo dell'interfaccia. Eppure ancora una volta questi elementi passarono quasi in secondo piano rispetto alla bontà di un prodotto che faceva di nuovo dell'atmosfera e della storia i suoi cavalli di battaglia. Confermando l'ispirata vena creativa del predecessore, anche Project Zero 3 manteneva infatti una narrazione intrigante, accompagnata dalla già citata regia capace di far saltare sulla sedia anche il più scafato dei fan dei survival horror.
E questo anche se il gioco alternava fasi all'interno dei classici e lugubri luoghi infestati dei predecessori, a un appartamento moderno, dove tuttavia non mancavano momenti di paura come quando specchiandosi in bagno si vedeva di riflesso passare alle spalle della protagonista un fantasma nel corridoio, oppure quando due gambe apparivano nel sottoscala. La storia narrava infatti di una fotografa freelance di nome Rei Kurosawa, distrutta dal dolore per la perdita del fidanzato avvenuta in un fatale incidente automobilistico mentre lei stessa era alla guida. Da quel giorno la vita di Rei si susseguiva in intere giornate chiusa in casa, con l'unica eccezione delle uscite necessarie per il lavoro, e in lunghe nottate nelle quali veniva tormentata da terrificanti
incubi, che la trascinavano in ambienti allucinanti popolati da fantasmi, sacerdotesse, terribili rituali e inquietanti misteri. Nel gioco si potevano utilizzare altri due personaggi, ognuno con le sue abilità: Miku, dal primo Project Zero, che qui faceva da assistente a Rei, e Kei Amakura, zio di Mio e Mayu Amakura da Fatal Frame II. Tirando le somme il titolo non fece gridare al miracolo, ma, come detto prima, fece registrare giudizi tutto sommato positivi (a parte per i controlli e i movimenti) ottenendo un dignitoso 78 su Metacritic. Con un franchise dalle grandi potenzialità e in grado di attrarre una discreta fetta di pubblico, erano in tanti coloro che erano disposti a scommettere su un quarto episodio in arrivo in tempi brevi per le nuove console arrivate o in arrivo in quei mesi, in particolare PlayStation 3 e Xbox 360.
A maggior ragione dopo le dichiarazioni del director Makoto Shibata, che in un'intervista aveva manifestato la sua volontà di lavorare proprio su piattaforme next-gen con una certa potenza di calcolo. Tecmo invece stupì tutti, e un nuovo capitolo venne si sviluppato e poi rilasciato nel 2008, dopo aver rischiato la cancellazione, ma su Nintendo Wii con tanto di supporto a Wii Remote e Nunchuk. Il titolo questa volta fu sviluppato da Grasshopper Manufacture pare con la supervisione di Nintendo, e coinvolse oltre al già citato Shibata perfino Goichi Suda.
Intitolato Zero: Tsukihami no kamen, come detto nel cappello introduttivo, il gioco non arrivò però mai in occidente se non tramite i negozi di import, e Tecmo e Nintendo fecero un po' a scaricabarile su chi e perché non aveva voluto pubblicarlo fuori dai confini giapponesi. Ad ogni modo pur non riscuotendo un grosso successo di critica, il prodotto a dicembre del 2008 fece registrare dei buoni dati di vendita, con ben 73,449 copie piazzate in Giappone. Segno evidente che tutto sommato il brand tirava ancora. Eppure da quel momento in poi della serie Project Zero/Fatal Frame si sono perse le tracce, se si eccettua qualche rumor negli anni passati su un possibile quinto episodio regolare. Un vero peccato, perché le potenzialità del marchio non si discutono, e siamo certi che con qualche accorgimento tecnico che adeguasse parte del gameplay e in generale l'engine alle potenzialità delle attuali piattaforme ludiche, un Project Zero 5 potrebbe trovare un suo spazio importante sul mercato di genere. In fondo di storie da raccontare i fantasmi di quella che oggi è Tecmo Koei Games ne avrebbero ancora tante.