"...... Furono le strade assolate, deserte e brulle di Mitilini infatti, che mi accolsero in quell’agosto 1975. Un agosto pieno di energia, carico di speranza e di quella voglia di confrontarsi con il mondo che però si rivelò del tutto impreparata ad immettere nei polmoni l’aria che ci avvolse all’aeroporto alle 4 di un pomeriggio, risultato, per le nostre centritaliche abitudini, rovente. Non sono più tornato a Mitilini, là dove, fra l’altro, oggi abita un amico di questi ultimi anni, Andonis, un artista del legno e del pennello, uno di quelli che conservano il passato tra le rughe intorno agli occhi e con il quale non smetteresti mai di parlare. Di cosa? Non è importante l’argomento, qualcosa che riporti al benessere dello spirito l’abbiamo sempre trovato. E proprio con lui, di recente, grazie ad una delle sue benedette visite ad Atene, ho rivisitato i ricordi di quel ‘75, aiutato peraltro da qualche foto in quello stupendo bianco-nero che meglio si addice a ciò che ha superato almeno una generazione e che mi ha conservato intatti quei glicini senza dubbio già allora centenari, aggettanti l’ombra che assetati di frescura cercavamo sulle strade di Molivos, nella cui vicina spiaggia il campeggiare più libero e selvaggio avrebbe contraddistinto il primo incontro con l’Ellada. In realtà la sosta prima fu ad Atene in aeroporto, ma quella, nonostante il quarto d’ora che in autobus ci portò sul lato nazionale delle partenze dell’allora struttura di Hellenikon, oggi ridotta come questo paese ad essere un monumento all’incuria, degna compagna di tanti italici sprechi, fu in realtà un’anonima pausa che giusto giusto ci fece apprezzare l’incomprensibilità di quell’alfabeto e più che altro del suo significato. Lingua ostica per me quella greca, anche se credo sia, ancora oggi, per una sorta di ripicca cui voglio tener fede, che mi impedisco di impararla, almeno quel tanto che basta per raggiungere la soglia minima dell’integrazione. Provenivo da studi scientifici e non avevo avuto fra le materie scolastiche il greco e nemmeno in facoltà durante il mio corso in lettere moderne che non lo comprendeva ma, per una curiosità partita da chissà dove, mi misi a studiarne qualche accenno proprio in quell’inverno che precedeva la partenza. In realtà ciò che mi ero accinto a rovistare era il greco antico per cui, salvo l’enorme fatica dell’autodidatta altro tangibile risultato non produsse. Da lì credo, sicuramente nacque la ripicca, alla quale dovrò disobbedire un giorno o l’altro se non voglio continuare a sentirmi più estraneo di ciò che non sono. Mi ero messo d’impegno in verità - al tempo -, ma nessuno, alla prova dei fatti, giunto in terra straniera, capiva neanche una parola, tanto meno quando, quel pomeriggio d’agosto, imbufalito e preoccupato, vidi partire il mio zaino sul tetto di un autobus che sicuramente aveva accolto Churchill in uno dei suoi primi viaggi, mentre io venivo, seppur gentilmente, sospinto dentro un altro al grido di: pame, pame!! grigora grigora! Parole che non mi significavano niente ma che, pronunciate dall’autista mentre nel frattempo metteva in moto, si accendeva l’immancabile sigaretta e innestava la prima, facendo rombare un sonnolento motore con vulcaniche sgassate di fumo denso e nero, manifestavano intenzioni chiare per tutti. Ritrovai il mio zaino, dopo circa un’oretta di polvere e curve, insieme ad altri bagagli, scatoloni e pacchi, a Molivos, la piccola frazione dove avrei eletto il mio - e quello degli immancabili amici al seguito - temporaneo domicilio, appoggiati alla colonna rigorosamente bianca di una calce accecante dove, stanco anche lui, si appoggiava il cancello dal quale si accedeva al bar, anzi alla Taverna. Una piccola agorà dove tavolini e sedie attendevano chissà, forse da sempre, sotto alberi fronzuti e freschi tra lo schiocco dei dadi che battevano sul legno del backgammon, che tra l’altro qui si chiama tavli (τάβλι), ed il fresco e sordo battere di grondanti bicchierini di acqua fresca sui tavoli di marmo, che in un crescendo degno del disneyano apprendista stregone, arrivavano e partivano qualunque cosa tu ordinassi. Fu una vacanza speciale quella, dove tutto nell’isola sembrava coincidere con la mia necessità di ritemprarmi iimmerso in una concezione del tempo per la quale ciò che non era possibile oggi, sarebbe arrivato domani, o dopo, bastava saper aspettare, cosa che, sotto le coppole nere, dentro neri gilet e camicie immacolate spesso semi-nascoste da un’alta fusciacca, vecchi e giovani del paese, sapevano a meraviglia interpretare. Quanto avrebbe pagato la Grecia questo suo disincantato amore per la vita! Ma allora - quanto sembra lontano quell’allora - nulla al mondo avrebbe potuto distogliermi dal godere appieno quella semplicità di piccoli pesci fritti, minuscole polpette ed immancabili insalate con feta, cetrioli e, al tempo, l’immancabile Retzina, vino aromatico che provocò un tale immediato disgusto che da allora non ho più, stoltamente, avuto il coraggio di assaggiarne ancora. Le mie preferenze si manifestarono chiaramente quando, dopo appena un paio di giorni, orgogliosamente ordinai alla Taverna “keftedes (κεφτέδες)”, le polpette appunto, richiesta alla quale un grande sorriso dell’oste (come altrimenti chiamarlo in quel contesto?) mi fece capire che avevo almeno risolto uno dei problemi essenziali: la perenne (allora) necessità di cibo. Nell’attesa che arrivassero, su tutto e su tutti si ergeva imperioso, fresco, profumato, asciutto ed appagante il gusto, l’olfatto e soprattutto, capace di rendere infinita l’attesa, l’Ouzo, che reputo ancor oggi l’essenza liquida di questo paese, il suo portabandiera, il padrino e la madrina. Era un’attesa dolce e senza tempo quella del pasto, interrotta solo da quel discreto via vai di bicchieri che venivano ordinati dagli avventori, semplicemente innalzando quello vuoto, come un brindisi generosamente e frequentemente rivolto al padrone di casa. La vacanza, come tutte o quasi del resto, passò in fretta e quel mese, come tutti gli altri belli della vita - anzi al tempo come la vita tutta - andava di corsa. Venni via credendo che quella fosse la Grecia, altro non sapevo, non conoscevo e, francamente neanche mi importava. Mi andava bene così...."
(Estratto dal capitolo introduttivo del mio ultimo libro "Da Pericle a Papadimos", la cui stesura é pressoché completa, in attesa di passare alla non meno laboriosa fase redazionale e poi, come si spera, alla stampa. Il libro come potete intuire dal titolo vuole essere in realtà qualcosa di più seriosamente articolato ma era impossibile per me scinderlo dalla storia che mi lega a questo paese da quasi quarant'anni. Sarà infatti il susseguirsi dei miei viaggi che scandirà il tempo e, seppur limitato al capitolo iniziale, darà quel tono un poco autobiografico che mi esenta così dall'atteggiarmi a storico o a giornalista )