Anna Lombroso per il Simplicissimus
L’Europa è piccola, la gente mormora.
Come in ogni guerra che si rispetti generali improvvisati promossi senza aver mai visto i campi di battaglia, tentano di indirizzare il malcontento e farlo virare su revanscismo e sciovinismo, insomma su tutta la paccottiglia di rancori nazionali e di retorica regressiva.
E dire che erano i bramini della globalizzazione: invece eccoli qua i governi europei a prendersi a botte mentre scivolano legati da un patto suicida nel precipizio, italiani a rivendicare che mica sono pecorai inetti come i greci, i greci a dire che la colpa è dell’ottusità tarda e cinica dei tedeschi, i francesi che guardano a noi come ai soliti cialtroni inaffidabili, i tedeschi ce l’hanno con tutti i pigs sfaticati, indolenti, dissipati. Più sensibili alla critica schifiltosa e capziosa dei partner che ai bisogni dei cittadini, governi ”borghesi” sotto la bandiera della iniqua austerità sono riusciti dietro al sipario delle scaramucce rissose a raggiungere quell’unità in nome del profitto mai conquistata dai proletari di tutto il mondo. Si vede che potere, accumulazione e sopraffazione sono motori più potenti di diritti e uguaglianza. E che ha vinto l’internazionalizzazione di quella aggressiva conflittualità, nutrita dal malessere sociale e da politiche infami che incrementano disuguaglianze, quella che alimenta inimicizia, crudele separatezza, rottura di vincoli millenari, annientamento dei patti di solidarietà.
Ma non preoccupiamoci troppo, il risibile scatto di orgoglio del presidente del consiglio abituato a reggere le code di padroni esterni, quell’impennata di dignità offesa fanno parte di un teatrino: non dichiareremo guerra all’Austria, nemmeno alle sue industrie che giustamente reputano la Fiat una fabbrica-cacciavite. Le alleanze, come una volta, si fanno e di disfano seguendo il vento prodotto dal frusciare delle banconote e come una volta i lavoratori sono esortati a unirsi non per difendere occupazione e conquiste, ma per tifare la patria come se in quello risiedesse una consistenza naturale tra i loro interessi e quelli padronali. Lo stesso tifo espresso davanti alle partite, che la nazionale è una fede e fa dimenticare tutto, malaffare, corruzione, compensi milionari e immeritati, scommesse e patetiche escursioni populiste.
L’Italia non ha bisogno di aiuto, ha proclamato con alterigia Monti. Sommessamente viene da dire che gli italiani invece si. Non abbiamo niente da vergognarci, siamo un grande Paese. Gli italiani invece provano una certo imbarazzo per un governo incompetente e impotente, tenace nella difesa dei privilegi, nell’oltraggio ai diritti, nell’annichilimento del lavoro. Un governo che dopo aver sbagliato tutto alza la voce con chi denuncia le sue malefatte. Un governo che redige provvedimenti rovinosi rovinando centinaia di migliaia di persone. Un governo inetto nel predisporre misure anti corruzione, non solo per incompetenza, ma anche e decisamente per non colpire cerchie affini. Un governo che mantiene, vezzeggia e protegge i grandi patrimoni, il sistema finanziario rapace, la criminalità economica, le grandi lobby, taglieggiando le categorie più vulnerabili, colpendo i beni comuni, istruzione, sicurezza e anche l’intelligenza, attuando propositi e azioni che dileggiano buonsenso e interesse generale.
Proprio ieri sono stati sorpresi dallo stato di emergenza di cui hanno contribuito a rafforzare l’implacabilità. E richiamano all’unità per la crescita. Se ci turbava la loro austerità, figuriamoci se non ci preoccupa la loro crescita, fatta di privatizzazione, svendita del patrimonio pubblico, ricostituenti alle banche, imposizioni inique che tanto i soldi non ci sono, perché non si va a prenderli dove sono ben custoditi o dove circolano nell’opacità tutelata e condivisa. Non li abbiamo sentiti parlare di adozione di strumenti atti a ridurre il rendimento dei debiti sovrani, di una revisione del mandato della BCE o dell’alleggerimento del Fiscal Compact che abbiamo stolidamente perseguito in prima fila. Non li abbiamo sentiti riflettere a un decremento della pressione fiscale contemporanea alla lotta all’evasione, quella vera non quella degli scontrini soltanto. Non li abbiamo sentiti proporre azioni attrattive per gli investimenti e per miglioramento della bilancia commerciale che andassero oltre tour turistici con la borsa da piazzista.
Il kapò Luttwak giorni fa si lamentava che il boia Monti non è stato abbastanza cattivo. E svelando qualora qualcuno ancora non se ne fosse accorto, che siamo in guerra. Una guerra strana nella quale il fronte unito dei “padroni” non vuole la nostra morte, non gli conviene, vuole introdurre una totale servitù, la cancellazione di ogni critica e reazione, l’abbattimento di ogni forma di sovranità dello Stato, l’affermazione di una cupola mondiale. Eppure anche loro dovrebbero preoccuparsi della disuguaglianza, anche l’egoismo è minacciato perché ha bisogno di una società funzionante intorno a sé per conservare la propria posizione. Società vastamente disuguali non funzionano in modo efficiente e le loro economie non sono né stabili né sostenibili. La lezione della storia è esplicita: si arriva a un punto in cui la disuguaglianza entra in una spirale di malfunzionamento economico per l’intera società, e quando si avvita su se stessa anche i ricchi piangono.
Siamo in guerra, facciamoli piangere, sfiduciamoli, cacciamoli via. Tentiamo quello che a loro finora è riuscito, coaguliamo la nostre resistenze, uniamoci intorno alla difesa del lavoro, intorno a consumi razionali, intorno alla tutela dei beni comuni, intorno alla salvaguardia del territorio e della sua “ identità”, intorno alla memoria di essere stati a volte un popolo.