Valeria Arena 15 marzo 2013 cinema, primo piano, vedere Nessun commento
Togliamoci subito il sassolino dalla scarpa: Promised Land non è un film ambientalista, e nemmeno un’opera che intende condannare le macchinose strategie delle compagnie energetiche; magari un minimo di biasimo c’è, ma non è quello il suo obiettivo finale. Il nuovo lavoro di Gus Van Sant è un film sulla comunicazione pubblica, sull’efficacia di raggiungere le proprie mete non puntando sul contenuto, ma sulla presentazione. Quello che si istaura tra Matt Damon e John Krasinski somiglia molto alle sfide elettorali, quelle in cui chi vince, tranne in rarissime occasioni, è sempre quello che ha capito come colpire il suo uditorio e rimanere impresso nella memoria della gente. Quello che in situazioni pubbliche è in grado di realizzare gesti di impatto, come pulire una sedia su cui si era precedente seduto un presunto nemico, per intenderci, o coinvolgere la folla durante un mini show, come nel caso di Krasinski. Non a caso l’opera di Gus Van Sant acquisisce senso e profondità nel momento in cui lo stesso Krasinski entra in scena, più o meno a quaranta minuti dall’inizio. Da qual momento in poi è solo sfida a due: un agente della Global, compagnia del settore energetico, convinto di avere un grande ascendente sui suoi potenziali clienti e di chiudere la pratica in pochissimi giorni, e un ambientalista, decisamente più bravo di lui nelle relazioni personali. A questo punto il contenuto non basta più, bisogna capire i malumori della folla e sfruttarli a proprio favore per riuscire a vincere. Questo è solo il primo punto della lista.
Successivamente entra in gioco il metodo di approccio, l’empatia, la simpatia, ed ecco che l’intera cittadina agricola, da sempre ostile a presenze ambientaliste, finisce per sciogliersi e per appoggiare il sorridente Dustin, mentre la strategia comunicativa di Steve, Matt Damon, considerata simpatica e attraente solo dal suo artefice, diventa vecchia e obsoleta. Basti solo considerare il modo in cui i due rivali si muovono davanti a un microfono per capire dov’è che sta la vittoria. Una digressione verso l’attuale situazione italiana qui è doverosa, perché il film di Gus Van Sant sembra una perfetta rappresentazione, anche se piuttosto semplice, di tutto quello a cui abbiamo assistito in piena campagna elettorale e subito dopo la chiusura delle urne. Abbiamo sentito e visto numerosi tentativi di comprensione e di critiche, oltre che reazioni di sorpresa, ma gli unici che ci hanno veramente preso sono stati quelli che si sono focalizzati sulle strategie comunicative, proprio come hanno fatto Damon, Krasinski e Gus Van Sant, arrivando a una semplice e diretta conclusione: la vittoria del populismo nelle sue svariate forme, anche quelle poco visibili, soprattutto se si ha a che fare con una folla.
Il personaggio interpretato da Krasinski, a cui potete associare chi meglio vi aggrada se solo ascoltaste il vostro spirito critico, asseconda il malessere popolare, vive la cittadina agricola, socializza, fa divertire il pubblico, spodestando il suo rivale. Le cose andranno sempre come lui ha previsto, perché è lui che orchestra il gioco, fino alla fine. Matt Damon-Steve-Bersani, scusate, mi è scappato, invece prova a vivere nel buio, lontano dai riflettori, seduto da solo sul bancone di un bar, mentre l’altro socializza. È naturale che la sconfitta sia dietro l’angolo. A un certo punto della pellicola prova anche a imitare il nemico, indossando il cappellino che Dustin porta sempre con sé, organizza pure una fiera per coinvolgere la piccola cittadina, ma fallisce miseramente, anche perché, oltre a essere mediocre nella comunicazione pubblica, è fondamentalmente sfigato, e infatti è anche capace di farsi soffiare la donna in un istante. Il finale del film di Gus Van Sant non è però come quello italiano. La sceneggiatura, che risente dei due autori, è stata scritta dai due protagonisti, Matt Damon, il più presente, e John Krasinski, il perno dell’intera opera, mentre il regista si nasconde benissimo dietro i due interpreti, quasi irriconoscibile.
Se per un attimo Damon ci lascia intendere che nulla è possibile e controllabile contro una strategia comunicativa orchestrata perfettamente, successivamente ritira il braccio dopo il sasso appena lanciato e allontana la sacrosanta verità appena rivelata, ma è solo fumo negli occhi perché il vero vincitore è comunque Krasinski. E qui si apre un altro grande capitolo italiano, quello dello sconfitto, o meglio del presunto sconfitto, che in solo due settimane risale la china e si avvicina alla vittoria, perché come comunica lui non comunica nessuno, insieme a un altro grande comunicatore, che non a caso fa il comico. La strategia della Global con il controllo minuzioso di ogni particolare è una campagna elettorale perfetta. Damon non si riconosce in essa, se ne allontana, prova addirittura a combatterla spiegandone il funzionamento, ma non riesce a vincere lo stesso, probabilmente perché gli manca l’empatia, e ritorna ai suoi vecchi metodi e demoni più in bianco e nero che mai. La lezione continua a non servirgli: il segreto sta non in quello che dici, ma in come lo dici, e nell’essere in grado di dire la stessa cosa in modi diversi, senza che gli altri se ne accorgano, mio caro Pier Luigi.