Promuovere o assumere?

Da Giancarlopastore @PastoreGC

DIDATTICA CIPAS™

PROMUOVERE O ASSUMERE?

E’ il dubbio di ogni azienda che deve sostituire un collaboratore. Se si assume dall’esterno bisogna attrezzarsi al cambiamento. Se si promuove si deve fare attenzione agli equilibri interni e ai percorsi di carriera.

Quando un collaboratore qualificato se ne va, scopriamo spesso che le tavole di rimpiazzo su cui abbiamo lavorato tanto su input della direzione del personale servono abbastanza a poco: perché il successore designato non è ancora pronto, perché nel frattempo ha assunto un altro incarico o per qualche altra buona ragione. E ci troviamo in brache di tela: il vecchio motto “tutti sono utili, ma nessuno indispensabile” ci risuona beffardo nelle orecchie. Sì, perché abbiamo sempre pensato (a) che nessuno dei nostri più stretti collaboratori fosse così scontento e così scorretto da piantarci su due piedi, e (b) che “morto un Papa, se ne fa un altro”. Due convinzioni da rivedere nell’era dell’incertezza permanente, in cui la fedeltà al datore di lavoro è un valore in declino e la fungibilità dei detentori di know-how è diventata un’utopia. Certo, le tavole di rimpiazzo sono uno strumento indispensabile, ma se non vengono usate nell’ambito di una seria pianificazione delle carriere diventano uno strumento meramente indicativo, che lascia il tempo che trova. “A” può essere sostituito da “B” solo se quest’ultimo è pronto, in termini di conoscenze, esperienze e leadership. Altrimenti le tavole di rimpiazzo restano a prendere polvere nei cassetti dei capi e nei file del personale. Per prevenire le uscite indesiderate, bisogna fare di tutto per sviluppare e motivare i collaboratori chiave: curarne l’apprendimento, la responsabilizzazione e la motivazione, metterli alla prova su più fronti (anche la gestione delle persone!), farli ruotare su più incarichi in modo da favorirne la polivalenza professionale e da aprire loro vari sbocchi di carriera (non solo di tipo orizzontale).

 

 

 

Premiati i peggiori

Fin qui la teoria: ma in pratica? In pratica, purtroppo, tutto questo avviene molto di rado: si punta ancora sull’iperspecializzazione e perdura quella regola paradossale per cui chi fa bene il proprio lavoro, rischia di fare sempre e solo quello fino al pensionamento o alle dimissioni per esasperazione. Col corollario, ancora più paradossale, che si offrono più opportunità di mobilità interna e di carriera a chi fa male il proprio lavoro, e quindi passa frequentemente da un’unità organizzativa all’altra.

Pianificazione delle carriere

La pianificazione delle carriere, anche nel senso minimale di predisposizione delle tavole di rimpiazzo, è una prassi consolidata delle imprese medio grandi. Le quali hanno a disposizione un pool di risorse umane più esteso, articolato e omogeneo. Senza scomodare la cultura organizzativa (su cui oggi si investe obiettivamente abbastanza poco), le imprese di maggiori dimensioni hanno molte più ragioni per privilegiare la crescita dall’interno. Vedremo poi che una politica di questo tipo, ineccepibile sul piano della coerenza sistemica, non garantisce comunque – di per sé – la qualità del risultato. Le imprese minori, per converso, tendono generalmente a ricercare le figure manageriali e professionali sul mercato esterno. La ragione è duplice: non hanno la possibilità di svilupparle all’interno e necessitano di un contributo innovativo che non può generarsi in quel tipo di struttura. I pro e i contro dei due modelli sono schematizzati nella tavola.

 

Assunzione dall’esterno?

La griglia è auto esplicativa, nel senso che mette bene in luce le specificità dei due approcci al reclutamento di manager e professional: la grande azienda ha certi “volumi” di assunzioni che giustificano una struttura di selezione; ha delle dinamiche interne che liberano periodicamente delle posizioni; ha, soprattutto, l’esigenza di preservare degli equilibri e di perpetuare un certo modo di operare e di affrontare i problemi. Qualcuno parla, criticamente (e non sempre a proposito), della sindrome “not invented here” che porterebbe a svalutare aprioristicamente qualunque contributo proveniente dall’esterno. Per questi critici, la grande azienda, con il suo monolitismo culturale, sarebbe una sorta di muro impermeabile all’influsso di altri modelli, anche di successo. Sono giudizi da prendere con le molle: se così fosse, bisognerebbe concludere che la Pmi, per sua natura più agile, è anche più sensibile agli influssi esterni e più ricettiva alla “diversità”. Mi pare sinceramente una conclusione fuorviante. In realtà, nella maggior parte dei casi, la gestione dei manager di livello medio alto provenienti da ambienti (quando non da business) assai diversi crea notevoli problemi: l’integrazione è difficile, le attese reciproche sono estremamente elevate e la soluzione di compromesso, che finisce per scontentare entrambe le parti, è quella di un utilizzo parziale della risorsa nel tentativo – non sempre destinato al successo – di bilanciare ordine interno e apporto innovativo. In sintesi, per rendere efficace una politica di assunzione dall’esterno, occorre il concorso di una serie di condizioni che non è facile trovare presenti nel contempo:

- una reale disponibiltà del management al cambiamento, per assicurare l’ingresso agevole e la massimizzazione del contributo fornito dalle nuove risorse provenienti  da fuori;

una vera apertura, in alto e in basso, da parte della struttura a stili di leadership e a modalità operative non consueti e quindi potenzialmente minaccianti;

- un controllo efficace da parte del top management sul grado e sul tipo di utilizzo della risorsa acquisita dall’esterno, per prevenirne l’emarginazione, la demotivazione e in ultima analisi il “depotenziamento” da parte dei colleghi che vogliono mantenere lo status quo.

Se (come credo) questi rilievi sono fondati, è evidente che la politica di assunzione di quadri e manager dall’esterno ha senso solo in un contesto di cambiamento e di evoluzione pilotata. Altrimenti il dirigente che passa da un’azienda grande a un’azienda medio piccola per assumere una posizione più alta (il caso classico è quello del direttore marketing o vendite che va a fare il direttore commerciale in un contesto di minori dimensioni) rischia di fare la fine del vaso di coccio tra i vasi di ferro: osteggiato dai colleghi, boicottato dai sottoposti e presto abbandonato anche dal vertice che, se non arrivano i risultati attesi, è lesto a voltargli le spalle.

 

 

O promozione interna?

La conseguenza implicita di quest’analisi è che tutte le imprese non piccolissime dovrebbero scegliere di costruirsi una politica di sviluppo dall’interno, facendosi aiutare – in fase d’impianto – da un consulente. Il fai da te in questo campo delicato, e impregnato di valenze culturali e simboliche, è davvero pericoloso. Una vera politica di promozione dall’interno si fonda sulla padronanza di alcuni strumenti tecnici (la job description, il profilo, le scale retributive, la politica di merito e di incentivazione, l’analisi dei bisogni formativi) e sul consolidamento di certi equilibri organizzativi e di potere. Se manca questo background, di conoscenze e di assetti interni, c’è il rischio di commettere degli errori costosi e irreversibili nella scelta dei candidati interni alla copertura di una posizione vacante:

- approccio contingente, cioè molto focalizzato sul “qui e ora” (la mansione da ricoprire nell’immediato), con un’insufficiente valutazione prospettica di quelli che potranno essere gli sviluppi futuri dell’organizzazione, della posizione e del collaboratore;

scarsa attenzione al potenziale del candidato, con quel che ne deriva in termini di motivazione/gestione nel medio periodo (oltre i 3 anni dall’inserimento nella posizione);

- attribuzione di un peso eccessivo alla componente tecnico esperienziale (know-how specifico e anzianità di ruolo), rispetto alla leadership, che invece è determinante per la gestione dei team di lavoro.

Come si vede, promuovendo dall’interno in un contesto strutturato di questo genere, si minimizzano gli errori di selezione e si rende più efficiente l’organizzazione. Se si decide di puntare su dei manager provenienti dall’esterno, bisogna lasciare loro degli spazi adeguati di autonomia e di azione, e dei tempi di valutazione adeguati.

Affidarsi al mito dell’”uomo della provvidenza” è una scelta miracolistica che sa di disperazione e di impotenza. E che comporta quasi sempre delle amare delusioni.


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