La vedete la prima foto qui sopra, a sinistra? Immagino che la riconoscerete tutti. È il primo piano che la stampa di mezzo mondo dedicò a Cristina Riccione, la giornalista freelance che, per prima in Italia, documentò un attacco di Gialli nel cuore di una grande città. Si trattava di Milano ed era il 2 novembre 2012. Praticamente un'altra era geologica. La Riccione filmò di nascosto un'azione di rastrellamento dei Carabinieri nel quartiere della Barona, dove la comunità nigeriana nascondeva i suoi infetti negli scantinati di alcuni palazzi, perlopiù occupati abusivamente. Le autorità tenevano nascosto tutto, minimizzando il problema a dispetto dell'allarmismo dilagante. Gli unici provvedimenti erano le operazioni di sgombero e “sanificazione”, a cui non era prevista la presenza di telecamere e stampa. Quell'ennesimo rastrellamento si risolse in un altro massacro, che fu però ripreso dalla handcam della giornalista.
Per qualche mese, prima che la pandemia travolgesse tutto, Cristina Riccione divenne una sorta di celebrità. Lei era ovunque, anche dove i reporter più affermati si rifiutavano di andare. Nei quartieri in quarantena. In prima linea. Nelle manifestazioni contro il Governo o nei cortei degli xenofobi dello Yellow Panic. A lungo mi sono chiesto che fine avesse fatto. Il suo blog ufficiale venne chiuso (censurato) nel dicembre del 2013, quando le autorità cercarono di ricompattare ciò che rimaneva della pubblica opinione. Ho anche pensato che l'avessero arrestata o magari uccisa. Con lei moriva l'ultimo brandello di vera informazione nel mio paese, ma tutti erano oramai troppo occupati a sopravvivere per preoccuparsene.
Quattro giorni fa Cristina mi ha contattato privatamente, via e-mail. Ciò che l'ha spinta a farlo è stato il mio ultimo post, in cui ho parlato del Progetto Rondine messo in atto dal Governo britannico. Il vecchio fiuto da reporter, si direbbe.
Lei è ancora viva. Non vi posso dire dove si trova nello specifico né ciò di cui abbiano parlato. Ha aperto un nuovo blog sull'onda del “segnale d'emergenza” che noi tutti stiamo trasmettendo da qualche settimana. Dateci un'occhiata, finché la Rete regge: http://ladyingiallo.iobloggo.com/
A quanto pare Cristina ha diverse cose da dire, ma non so quando e se lo farà.
Sono però certo che leggerà questo mio post, quindi mi imbarazza un po' mettere in pubblico l'entusiasmo che provo per il nostro scambio epistolare. Un tempo avrei imputato il tutto al “fascino della persona celebre”, e forse in parte si tratta ancora di questo, a dispetto della situazione folle in cui versa il mondo.
Comunque è da un po' di giorni che il mio umore è migliorato. Il percorso è in realtà iniziato quando tutti voi vi siete palesati su Internet, dando testimonianza delle vostre vicissitudini da sopravvissuti. Mi sono sentito meno solo, anche se in molti casi centinaia di chilometri ci separano, senza parlare dei Gialli, dei razziatori e di tutto il resto. E ora Cristina, che è comparsa così... Da tantissimo tempo non provavo più l'emozione di attendere una mail. Non voglio esagerare con l'entusiasmo, ma comincio a essere più motivato, meno apatico. Anche i miei compagni lo notano.
(Per la cronaca: L'altra foto invece risale al periodo pre-pandemico, quando la Riccione era solo una blogger tra le tante. Una blogger che io seguivo. Non so come, non so perché, ma quella foto era ancora salvata sul mio portatile!)
Il resto della settimana è trascorso in modo molto meno tranquillo rispetto al recente passato. Prima di essere contattato dalla Riccione io e Manuel abbiamo eseguito l'esplorazione del piroscafo Concordia, come vi accennavo nel mio precedente post. Del resto Luigi e il suo badante filippino sono convinti di dover tentare un viaggio a Milano in concomitanza con l'arrivo dei commando inglesi del Progetto Rondine, missione prevista per il 19-20 gennaio. La prospettiva di fuggire nel Regno Unito è una delle migliori (il che è tutto dire), considerando che qui in Italia non c'è una minima base su cui sperare nella ricostruzione della civiltà. Anzi, quel poco che leggo mi fa capire che è meglio tenersi lontano dai miseri “salvatori della patria” che sbucano dai rifugi militari.
Certo, il piano dei miei compagni è a dir poco avventato e aleatorio, ma potrebbe anche funzionare. Al peggio ci troveremo nei pressi di questo misterioso bunker milanese, dove si nasconde anche il neurologo che gli inglesi vogliono portarsi a casa. Se anche i SAS ci lasciassero a terra, potremmo rifugiarci laggiù. Sempre che qualcuno non decida semplicemente di spararci e di bruciare i nostri corpi. Una prospettiva fantastica, vero?
Il viaggio a Milano, dicevamo. Un percorso che nel mondo di prima avremmo divorato in un'oretta scarsa, senza nemmeno accorgercene, ma che ora sembra il periplo di Ulisse. Per questo dobbiamo prepararci con largo anticipo.
Lunedì mattina all'alba, col termometro che indicava -1, io e Manuel siamo usciti dal portone blindato, dopo esserci assicurati che non c'erano Gialli in giro. Luigi se ne stava sul tetto, avvolto in una pesante coperta, coi due fucili Carcano pronti all'uso, nel caso ci fosse da coprirci. Avere un cecchino che vegliava su di noi era quantomeno una piccola assicurazione sulla vita. Comunque devo dire che il mio amico filippino è ben organizzato, per quanto concerne i blitz fuori dal torrione. Ci siamo vestiti dalla testa ai piedi, proteggendoci perfino la bocca con delle vecchie mascherine ospedaliere in garza, nel caso qualche schizzo di sangue infetto ci avesse raggiunto. Io ho anche indossato i miei occhialoni da motociclista, quelli che chiamo in “stile dieselpunk”, e che anni fa avevo comprato per una festa in maschera a cui poi non mi ero nemmeno presentato. Portarmeli appresso durante i miei mesi da sopravvissuto mi è sempre parsa una buona idea. O forse si tratta solo di un feticcio del passato, chissà.
Per fortuna la Wrangler era lì dove l'avevo lasciata, a un paio di metri dalla porta blindata. Nemmeno il freddo e l'inutilizzo prolungato sono riusciti a mettere KO la batteria, tanto che l'auto si è accesa al primo tentativo. Viceversa saremmo rientrati, per tentare col furgone parcheggiato sul retro, che Manuel accende di tanto in tanto proprio per evitare di trovarsi col culo per terra in caso di guai.
Io mi sono messo al volante, spaventato come sempre, la Glock appoggiata tra le gambe, pronta all'occorrenza. Di Gialli nemmeno l'ombra, ma il rombo del motore ne avrebbe senz'altro attirato qualcuno in tempo breve. Abbiamo percorso i trecentocinquanta metri che separano il torrione dall'imbarcadero a velocità ridotta, visto che la neve gelata poteva farci sbandare da un momento all'altro. Manuel, seduto al mio fianco col mitra MAB in braccio, mostrava una concentrazione e una calma che io mi potevo solo sognare. Siamo arrivati alla meta senza fare incontri. La sagoma dell'hotel da nababbi, oramai in rovina, svettava duecento metri alla nostra sinistra. Per fortuna sono riuscito a convicere i miei amici a lasciar perdere l'idea di esplorarlo. Anche se là dentro potrebbe esserci ancora cibo e magari anche vino e bibite, non vi entrerei per nulla al mondo.
Lasciata la Wrangler all'imbocco della banchina siamo scesi dall'auto, confortati dal fatto che di Gialli ancora non se ne vedevano. Non a caso il freddo era così intenso che faceva quasi male. Siamo saliti sul Concordia, complice la passerella ancora legata all'imbarcadero, come se la nave fosse in eterna attesa di passeggeri che mai più sarebbero arrivati. Il piano era semplice: controllare l'integrità del battello e verificare che non ci fossero a bordo dei “clandestini” indesiderati. Luigi ci aveva spiegato a grandi linee il funzionamento della motrice a vapore del piroscafo, abbastanza per capire se poteva ancora rivelarsi il nostro mezzo di fuga verso Cernobbio. Devo dire che è un battello che colpisce per eleganza e suggestioni retrò. Il che, se vi ricordate i miei vecchi articoli, corrisponde appieno ai miei gusti estetici. Ma in quel momento non potevo certo perdere tempo in pensieri di quel genere.
(la scheda illustrativa del Concordia: clicca per ingrandire)
Ci siamo fiondati sul battello con le armi in pugno. Manuel aveva con sé anche la sciabola da parata trovata nel museo del torrione, con la lama affilata fino a farla diventare letale come un rasoio. Il Concordia è lungo una cinquantina di metri e largo dodici. Ancora adesso non mi capacito di come Luigi possa governarlo da solo, ma su questo dettaglio il vecchio ci ha rassicurati più volte. L'ampio ponte scoperto dotato di panchine era deserto, spoglio. Seguendo le indicazioni imparate a memoria da Luigi ci siamo diretti verso il salone di prima classe, per esplorarlo sommariamente. La bellezza, seppur appassita, di quella sala è ancora in grado di togliere il fiato. Ci sono divani in pelle, mobili bar, tavolini d'epoca. Sulle pareti si intervallano specchi e finestrini. Il pavimento è rivestito in legno pregiato. Procedendo con cautela abbiamo sbirciato dietro i divani. Qualche bagaglio abbandonato mi ha dato l'idea che il capitano del Concordia stesse organizzando una fuga riservata a pochi intimi, quando qualcosa è andato storto. Però in giro non c'erano né Gialli né cadaveri. Ho raccolto una sacca in pelle dall'aria costosa e me la sono messa in spalla. Un gesto stupido, considerando che a breve il piroscafo sarebbe diventato a breve la nostra nuova casa. Poi Manuel ha fatto strada verso il ponte di comando, dominato dal fumaiolo e col passaggio d'accesso alla sala macchine.
È laggiù che lei ci ha assaliti. È sbucata dal sottoscala buio, agile e reattiva grazie al relativo tempore della stanza. C'è stato un movimento, un colore: bianco che spiccava nella penombra. Quindi la Sposa, come la chiamavo io, è saltata addosso a Manuel, trascinandolo in un corpo a corpo furioso sul pavimento della sala macchine. Non potevo certo spararle e l'idea di prenderla a roncolate mi ribaltava lo stomaco dalla nausea. Allora ho fatto l'unica cosa che mi è sembrata possibile: l'ho afferrata per il velo, impugnando insieme a esso una grossa ciocca di capelli unti, e l'ho strappata via dal mio amico. Con la forza della disperazione l'ho scaraventata contro il muro. C'è da dire che era magra, molto leggera, per quando dotata di un'aggressività selvaggia. Per un momento ci siamo guardati negli occhi, mentre si rialzava per tornare all'attacco. Ricordo di aver pensato che un tempo doveva essere molto bella. Questo mentre mi sforzavo di non farmela addosso. Poi Manuel, rimessosi in piedi, l'ha infilzata con la sua sciabola, in pieno petto. La Sposa ha fatto un'espressione quasi stupita, poi si è accasciata al suolo, morta sul colpo.
Col cuore che mi scoppiava nel petto ho chiesto al mio compare se era ferito. Entrambi sapevamo bene cosa significava una risposta affermativa. Il filippino ha scosso la testa, si è strappato la mascherina, imprecando. Era la prima volta che lo vedevo così agitato. « Tutto bene, non mi ha morso », mi ha rassicurato. « Mi ha solo sbavato in faccia, ma la saliva non mi è entrata in bocca. »
E se anche fosse successo, me lo avrebbe detto?
Comunque sia, il tempo di riprendere il fiato e ci siamo guardati intorno, accendendo anche le torce elettriche. Vicino alla motrice a vapore era ranicchiato un corpo. Visto che non si muoveva non c'era pericolo che fosse un Giallo. La cosa bizzarra è che indossava una sorta di divisa da batteliere, con tanto di berretto e livrea dorata. Il cadavere era rinsecchito, quasi mummificato. Non abbiamo osato toccarlo. Come avrei scoperto più tardi, la sua presenza lì, insieme alla Sposa, non era casuale.
Poi Manuel ha controllato i motori come ci aveva insegnato Luigi, riservando un occhio di riguardo all'indicatore della nafta, che da anni ha sostituito il carbone come combustibile su quel modello di piroscafi. Per fortuna il serbatoio è quasi pieno e la motrice sembra in perfetto stato di manutenzione. La nostra missione si era già conclusa ma, per un pelo, un singolo Giallo aveva appena rischiato di fotterci entrambi.
Tornare indietro non è stato più complicato del previsto. Per fortuna nessun infetto ci aveva visto arrivare all'imbarcadero, così siamo potuti risalire sulla Wrangler senza problemi. Intorno al torrione però c'era del movimento: cinque Gialli che fiutavano l'aria, come intuendo che qualcuno dei loro spuntini ambulanti era uscito dalla fortificazione. Il primo ad accorgersi del fuoristrada è stato un tizio vestito da ciclista, con un ridicolo caschetto protettivo in testa. Ha cercato di correre verso di noi, ma in freddo intenso lo rallentava. Poi la testa gli è esplosa come un frutto marcio. Luigi aveva deciso di darci copertura anche se non era strettamente necessario. Siamo arrivati in prossimità della porta blindata proprio mentre altri due infetti ci stavano raggiungendo, fuori dal raggio d'azione del fucile maneggiato dal vecchio. Non potendo fare altro siamo scesi, armi in pugno. Il Giallo dal mio lato era un tizio magro, sui vent'anni, pantaloni a vita bassa luridi da far schifo, eskimo a scacchi rossi e gialli, e un brutto morso che gli aveva strappato l'orecchio destro e parte del cuoio capelluto. Il povero stronzo arrancava tra il nevischio, tentando di raggiungermi. Se solo ci fossero stati cinque o sei gradi in più mi sarebbe balzato addosso, spedito come un treno. Quella consapevolezza mi ha convinto a sparargli senza troppe remore. Tre colpi di pistola in rapida successione, e il bastardo era terra, a spargere il suo sangue infetto sulla neve. Manuel, dal canto suo, aveva sistemato l'altro Giallo utilizzando la mia balestra, e si stava già industriando ad aprire il portone.
Dieci secondi ed eravamo dentro, con buona pace degli altri contagiati che stavano uscendo dalle loro tane attirati dagli spari.
I giorni successivi al nostro blitz sul Concordia sono stati intensi. Dapprima c'è stato il palesarsi di Cristina Riccione via mail, di cui vi ho già parlato. Poi, tutti e tre insieme, abbiamo iniziato a pianificare il viaggio verso Milano. Ci sono liste da preparare, bagagli da assemblare, percorsi da studiare. Manuel sta pensando a come smontare l'antenna satellitare per collegarsi a Internet, per poterla utilizzare prima sul piroscafo e poi lungo la strada. Non ho la minima idea se sia una cosa facilmente realizzabile, ma a sentire lui pare di sì.
Nel mentre ho anche dato un'occhiata alla sacca elegante che ho arraffato sul Concordia. Coincidenza delle coincidenze, sembra appartenere proprio alla Sposa. Forse c'è una sorta di karma in tutto ciò, se solo io credessi a questo genere di cose. Nella borsa ho trovato un set di make up dall'aria costosa, un borsello con 300 euro in contanti, una Mastercard e un documento d'identità e un iPhone di ultima generazione. Nel borsello c'è una foto che raffigura la donna a braccetto con un tizio vestito da capitano di marina (o qualcosa del genere). È evidente che si tratta dell'uomo morto che abbiamo trovato in sala macchine. Dunque erano una coppia. Lei si chiamava Agata, lui Federico. Della donna so che aveva 34 anni, gli ultimi due, o giù di lì, vissuti da bestia assetata di sangue. Eppure qualcosa della vecchia Agata doveva essere sopravvissuto al prione, visto che si nascondeva laggiù, dove il suo compagno era morto, forse suicida o di cause naturali, ma comunque non di pandemia. Lei vegliava sul suo corpo. Il vestito da sposa da dove era saltato fuori? Se l'era messo addosso prima, dopo o durante l'incubazione del morbo? Di cosa era morto Federico? E ancora: dove sarebbero andati, se solo fossero riusciti a salpare? Tutte domande che non avranno più risposta.
La storia di quei due mi ha trasmesso una botta di tristezza di quelle epocali. Martedì sera mi sono isolato e ho brindato alla loro memoria scolandomi mezza bottiglia di Oban che ho trovato nel seminterrato, ricordo di qualche mostra artistica del cazzo organizzata eoni fa, quando il mondo girava ancora per il verso giusto, o quasi.
Ed eccomi qui, pronto a imbarcarmi – letteralmente – in un viaggio assurdo che promette più guai che speranze. Ieri sera stavo facendo due conti: avremmo proiettili sufficienti per ammazzare tutti i Gialli rimasti a Tremezzo. Poi rimarremmo con poche munizioni, ma con un paese purificato, in cui cercare cibo, medicinali e altra roba utile prima dell'arrivo di altri infetti. Eppure non ho nemmeno tentato di proporre questa soluzione a Luigi e Manuel. Ora che ho saputo certe cose dalla mia fonte preferenziale, sono a mia volta convinto che vale la pena tentare questa sortita a Milano. Ricostruire qualcosa di decente qui è impensabile. Fino a qualche settimana fa mi sarei cullato nell'idea di rimanere tappato in casa, tirando a campare fino all'esaurimento delle provviste e della voglia di alzarsi al mattino. Ora invece ho almeno uno scopo, un obiettivo. Qualcosa che mi scalda il sangue.
Non posso dirvi di più, né voglio farlo. Magari nei prossimi giorni, se potrò sbottonarmi un po' (e se sarò ancora vivo) vi racconterò qualcosa in merito.
Abbiamo deciso di partire dopodomani. Perché ci muoviamo con un anticipo di addirittura tre settimane? Innanzitutto perché, prima di sbarcare dalle parti di Cernobbio, abbiamo intenzione di controllare le coste attigue per assicurarci che non siano troppo pericolose. In fondo il Concordia è dotato di molti comfort, generatore elettrico compreso, perciò non sarà affatto male starsene un po' a bordo. Il secondo motivo per cui leveremo le tende con largo anticipo e che, per colpa delle informazioni condivise su questo blog, prima o poi al torrione potrebbero arrivare dei razziatori. Magari gli stessi che hanno già saccheggiato l'Isola Comacina. Dunque dovrei sentirmi in colpa. In effetti un po' è così. Luigi e Manuel sono troppo educati per farmelo notare, ma ho fatto una mezza cazzata. Se non avessimo già in previsione questo viaggio, dovremmo comunque preventivare un trasloco per evitare brutte sorprese.
Sapete che oggi è la vigilia di Natale? Un tempo era la festività più amata dell'anno, un tripudio di consumismo e buoni sentimenti comprati alla UPIM.
Sul solito blog australiano che visito di tanto in tanto gli utenti si scambiano gli auguri, riservando dei pensieri “carini” per chi, come noi, calca le rovine decomposte del mondo che se ne è andato a puttane. Non ho mai interagito con questi canguri, ma questa volta ho provato la forte tentazione di mandarli affanculo. Ho rinunciato, perché in fondo è inutile prendersela con loro solo perché hanno ancora qualcuno con cui festeggiare.
E poi quest'anno anch'io posso brindare in compagnia. Manuel e Luigi sono la cosa più vicino a una famiglia che ho. Non più i miei genitori, né gli amici, né Sara. Lo scorso anno ho trascorso il Natale da solo, chiuso in casa, al buio, con la Glock stretta in mano. E non certo per paura che qualche Giallo violasse il mio rifugio. Questa volta ci concederemo perfino una sorta di pranzo vecchia maniera, almeno nelle intenzioni.
Luigi ha intenzione di cucinare una sorta di risotto liofilizzato che fa parte delle nostre scorte. Manuel s'inventerà un secondo mischiando un paio di lattine di piselli con una scatola di sgombri sott'olio conservata per occasioni speciali. C'è anche un vasetto di olive in salamoia che svuoteremo ben volentieri. Coi tempi che corrono è una vera leccornia. Abbiamo perfino intenzione di aprire una bottiglia di Sauvignon trovato in cantina. Ci manca il dolce, ma il distributore automatico scassinato da tempo offre una gran varietà di snack e tavolette di cioccolata.
E voi? Come passerete il Natale in questo mondo ormai privo di redenzione? Immagino che siano proprio feste come questa a far crescere la malinconia per i tempi e gli affetti perduti. Non ho nessun consiglio illuminante da darvi, nemmeno una pacca sulla spalla o un incoraggiamento. Mi limito ad augarvi di essere ancora online fra qualche giorno, quando tenterò di ricollegarmi dal Concordia. E, se non doveste vedermi, vorrà dire che qualcosa è andato storto. Cosa del tutto plausibile, a voler ben guardare.
Buon Natale a tutti.
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N.B.: Ringrazio Cristina Riminucci per avermi "prestato la faccia" nell'interpretare la web-giornalista Cristina Riccione. Qui e sul blog della Lady in Giallo.