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Prospettiva di un tempo che non c’è più.

Da Andrea Venturotti

Mi alzai faticosamente agli occhi della città.
Come ogni giorno, la lista delle cose da fare, per me, era corta.
Dovetti solo uscire dalla scatola di cartone umidiccia che chiamavo casa, spendere quegli ultimi cinque franchi che avevo in tasca per comprare un caffè che sapeva di acqua sporca e un dignitoso pranzo per Marat, il mio fedele e unico amico, un cucciolone di cinquanta chili con il quale condividevo davvero tutto, anche se, alla fine, non avevo nulla.
Mi incamminai dentro la folla di persone che popolavano la Ville Lumière.
La gente mi guardava male per il mio aspetto. Una camicia bianca, o perlomeno era bianca, un pantalone lacerato vicino alle ginocchia perchè era troppo stretto sulle giunture e un paio di sandali coperti di cartone. Insomma… ero uno poco à la mode…
Mi commentavano dietro anche per la mia poca attenzione al mio “Killer” Marat. Il mio cane mi seguiva ovunque e non avevo mai avuto i soldi per potergli comprare un guinzaglio. Non potevo nemmeno comprargli un collare con una medaglietta, visto che non avrei potuto scriverci l’indirizzo di casa, perchè la strada era l’unica  che mi accoglieva per quel che ero.
Avevo 22 anni e non avevo nessuno a cui importava la mia esistenza. Nessuno tranne Marat, ovviamente.
Presi postazione nel mio solito posto di lavoro.
La fermata della metro che dava accesso all’incrocio che portava all’Hotel de Ville era il mio lavoro. Ma soprattutto la mia vita.
Percorsi per circa 15 anni i lunghi tunnel che costituivano la metro. Ogni volta con un sorriso sulla bocca, una tazza di caffè in una mano e una custodia nera nell’altra.
Arrivai davanti alla cartina della metrò e li mi posai. Quello era il mio posto preferito, perchè tanti si fermavano a consultarla, e assai si fermavano a vedere quel che ero:
Un artista di strada.
Aprii la custodia facendo scattare le ormai scariche molle dell’aggancio di ottone, e lui, ogni giorno, mi appariva come se fosse stato la mia salvezza. E lo era.
Poggiai il caffè sul pavimento e presi con la mano sinistra il suo dolce manico, portando la cassa armonica tra la spalla e il mento. Con la mano destra raggiunsi l’arco. Povero arco, ormai i filamenti di crine che erano in tensione si potevano contare sulle dita di una mano, ma purtroppo dovevo fare con quello che avevo.
Ogni volta che battevo il tempo con l’archetto sul tacco del sandalo, non so perchè, Marat si metteva seduto e immobile, come se lui stesso volesse essere il mio primo fan.
Cominciai il mio “lavoro”, ma in realtà cominciava la mia vita.
In un batter d’occhio passavo da “mezzo uomo-disgraziato-poveraccio” ad un più semplice “Jacques “.
Già, quando i bambini mi chiedevano ingenuamente chi ero, rispondevo semplicemente “Je suis Jacques”, ammiccando un sorriso accennato sulle labbra per non spaventarli con i miei denti sicuramente rivedibili.
Intonavo con il mio povero violino chaconne, qualche capriccio, il mitico Rossini in tutte le salse e la primavera di Vivaldi, un compositore veneziano che ho sempre adorato fin dall’infanzia, quando tendevo l’orecchio sotto la finestra del Conservatoire de Paris.
Fu proprio li che conobbi la mia vita, o per meglio dire, il mio violino.
Quando avevo solo cinque anni e la mia famiglia era già quasi distrutta, l’unica cosa che mi rendeva felice era quel dolce suono di archi. E quel suono si poteva trovare solamente in due modi: All’Opera, pagando tanti franchi quanti ne guadagnava papà in un anno e al Conservatoire, arrampicandosi fino alla seconda fila di finestre.
Passavo le ore e i giorni appoggiato a quel muro, con l’orecchio aperto e gli occhi chiusi. Vedevo me, un giorno, vestito d’incanto e con in mano uno di quei violini che vengono costruiti dai mastri una volta ogni cento anni.
All’età di sette anni arrivò la prima svolta nella mia vita. Una nuova insegnante venuta dalla Bretagna mi notò fuori dal conservatorio e dopo una settimana di occhiate e incroci di sguardo mi fermò. Mi chiese come mai bazzicavo praticamente ogni pomeriggio davanti a quell’edificio. Le dissi, con il mio povero vocabolario, che la mattina lavoravo con papà e il pomeriggio lo dedicavo a ciò che mi piaceva. Mi invitò ad entrare per prendere qualche lezione, ma io le confessai pieno di remore che non avevo soldi. Ne io, ne la mia famiglia. Lei con la massima gentilezza si offrì di insegnarmi a suonare un violino vero senza essere pagata. Accettai, con le gambe tremanti, alla condizione che mi insegnasse fuori dal conservatorio, perchè non volevo gli occhi degli altri addosso.
La signora mi disse che avrebbe preparato un violino per me e che l’indomani mi avrebbe insegnato le basi. Andai a dormire a casa, non dicendo nulla a mamma e papà. La mattina seguente andai a lavorare ovviamente con la testa da tutt’altra parte. Ero impaziente e completamente eccitato all’idea di realizzare il mio sogno.
Raggiunsi il conservatorio alle quattro in punto e cercai con lo sguardo la signora che avrebbe esaudito il desiderio della mia vita.
Arrivarono le sei e nessuno si era fatto vivo, fino a che un’anziana signora, da dentro il conservatorio mi additò dicendo se ero io il “ragazzo del violino”.
Risposi di si. Da li a poco avrei incassato la prima grande brutta notizia della mia vita. Insieme a quella più bella.
Madame De la Croix, così si chiamava la mia “non-insegnante” era dovuta partire per l’Italia, visto che La scala, un posto del quale non sapevo nulla, aveva chiesto di lei.
Mi piangevano gli occhi. L’anziana signora mi disse di aspettare e dopo circa cinque minuti di lacrime amare tornò con un violino abbastanza vecchio ma con le corde appena cambiate. Mi disse che la De la Croix lo aveva lasciato per me e che era un regalo di scuse per la sua partenza inaspettata. Adesso si, mi pianse anche il cuore.
Presi il violino per quel che era: Uno strumento che non sapevo di saper suonare.
Passai i pomeriggi dei successivi due anni tra i tunnel sotterranei della metro e il pianerottolo del secondo piano del conservatorio. Imparavo ascoltando, associando le note e le melodie ai movimenti di quei ragazzi che da li a poco sarebbero diventati grandi violinisti. Capii in fretta che non sapevo leggere la musica sugli spartiti, ma sapevo ascoltarla. Identificavo un RE minore in mezzo ad una scorribanda di MI e di FA. Mi veniva facile suonare il violino e all’età di dieci anni, i signori passanti non mi davano più soldi perchè ero piccolo e facevo tenerezza, ma perchè era davvero un loro piacere ascoltarmi.
Sono passati 15 anni dal primo rapporto con il mio violino e tutt’oggi, ogni volta che apro la custodia, mi pare la prima volta. La mia vita è bellissima. Fino a che non richiudo la custodia dicendo a lui che ci saremmo rincontrati domani.
Mi ritrovo adesso a vivere in un vicolo cieco, al riparo dal vento e dal freddo grazie al cartone con il quale mi sono costruito la mia sfarzosa dimora.
Arriva un momento che la vita ti fa pensare al tuo tempo. Quanto sarebbe bello poterlo controllare? Credo che tutti abbiamo dei rimpianti e penso che una persona che non ha rimpianti non è una persona vera, tuttavia se proprio devo dirvelo, non vorrei tornare indietro per modificare la mia vita. Il passato è passato e come un puzzle si costruisce pezzo per pezzo, anche la vita ha bisogno di tutti i pezzi per arrivare allo scopo finale . Ma qual’è lo scopo? Lo scopo è il viaggio. Non importa dove arriveremo, ma come! Non vorrei mai tornare indietro, non potrei curare mio padre, non potrei impedire alla De la Croix di partire. Ma è giusto così. Sono una persona fortunata anche solo per avere un cane che mi ama e un violino malconcio per il quale darei la mia stessa vita.
Ho la stretta convinzione di non essere un eroe. Gli eroi sono quelli che combattono per qualcosa di grande. Io sono solo uno che fa ascoltare la sua musica dentro un tunnel della Metro. Vorrei viaggiare nel futuro, quello si, perchè vorrei davvero vedere quale sarà il mio arrivo. Sono davvero curioso e divertito nel vedermi più vecchio. Ormai ho accantonato il sogno di vedermi all’interno di un’orchestra, e il vedermi solamente vestito bene mi fa quasi ridere. Io sono questo e mi piace. Finchè ci saranno orecchie io vivrò. Attenzione: vivrò. Non “sopravviverò”. Sopravvive chi si trascina avanti e aspetta solo la morte per vecchiaia, sopravvive chi si racchiude dentro le sue convinzioni, sopravvive chi dice sempre di si all’opzione più conveniente.
A me basta solamente un violino da suonare, un cane da accarezzare, un pezzo di cartone per dormire e magari un libro da leggere prima che la pioggia sciolga il suo inchiostro fra le mie dita. Vivo grazie ai sorrisi della gente, alla bocca cerchiata dei passanti che mi sentono suonare, all’indice puntato verso di me dai bambini.
I soldi servono per sopravvivere, la gente, per vivere. Prospettiva di un tempo che non c’è più.

Alla vita chiederei solo due cose estremamente contrapposte fra loro:
L’immortalità, per non dover mai abbandonare il pubblico della Belle Ville.
La morte, perchè una vita così bella e appagante è troppo meravigliosa per invecchiare con me. Vorrei che tutti si ricordassero di ciò che sono, si dimenticassero di ciò che ero e non si preoccupino di quel che sarò.
Il tempo aggiunge esperienza ma toglie il tempo stesso e un futuro diverso da questa vita è una prospettiva di un tempo che non c’è più…

Prospettiva di un tempo che non c’è più.


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