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Prospettive: Omaggio di parole a Jaya Suberg

Creato il 26 ottobre 2015 da Wsf

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Jaya Suberg è una nata a Copenaghen nel 1956. Dal 1980 vive e lavora a Berlino, una città la cui vitalità e diversità hanno aiutato a trovare ispirazione per le sue creazioni. Jaya ricrea le tue foto digitali attraverso la pittura o disegno stampato o collages, dando così un’espressione più profonda.

Omaggio a Jaya Suberg di Anna Tea Salis

Ammetto di non conoscere l’introspezione in-Centrica- di
Jaya Suberg
Non mi informerò
Per tenere il pensiero pulito,
all’immaginazione, all’interpretazione, al solo osservare versi d’immagini in rilievo e bassorilievo
-L’iride assorbe rivolti metafisici –
R[Accordi ] d’ombre e luce
Il quel vagare dentro di te Java, raccolgo quest’immagine

1

Perché?
Il mare certo
Non può che colpire il mio essere I[sola] nell’ I[Sola] in un Mare Oceano dove una Galea trasporta l’ossigeno in risonanza tra i capillari e le vene del mio corpo.
Il vagare, mio bambina, e il crescere, mio adulta, si trascina dentro quest’opera.
E quelle mura che si ergono, quasi invisibili
in-ferriate- e ce- menti –
pareti che strusciano l’aria consapevolmente.
Portare il mare a casa o portare la casa sul mare?
-Significato e significante
o indica la natura violentata da costruzioni che infliggono e rodono? Con un sottofondo di Industrial e livesElettronics ci starebbe bene, ma preferisco l’idea surreale del Se nel Se
avvinghiarsi tra le onde del mare e sentirsi a casa.
Ed è in questo passaggio,attimo di cambiamento
mi sento come la musa di Agua

2

Dentro quel Mare Oceano
Dove la gravità non ti schiaccia a terra e ti sembra di volare.
A te dedico Jaya

Adagio 4# – Inediti Tra l’Allegro e l’Adagio- cito me stessa, non per Ego-centrismo, ma perché quando ho visto quest’immagine ho pensato a questo frammento di me stessa.

Mi spingo,
tra confini d’espiazione, per trovare luoghi in-colti- da santificare nella libagione del mio essere consapevole.
Non cerco strade diverse da percorrere, ma da ripercorrere con altre sfumature, e arricchire di cementi nuovi, e aiuole in fiore, magari anche un laghetto al posto delle piazzole, dove fermarsi a riposare tra gli sberleffi del tempo.
Rapirmi e chiedere il riscatto
Quanto valgo?
Devo smaliziare l’ego e invitarmi alla danza, molecole che volteggiano in origami di atomi, e splendidi mandala che si schiudono.
D’io quanto amo ballare la musica del mio essere … donna.
Grazie Jaya

***

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Poor Yorick di Guido Mura

Maschera o teschio? L’importante è avere
qualcosa da nascondere, segreti
o banali fandonie coperte di cera
e di colori sfatti nei vicoli d’ombra

L’importante è trovarsi
coerentemente morti
o vivi e tumultuosi mestatori
di foglie che s’inseguono in un maelström
di palpitanti stragi
Cosa rimane alfine
di tanti lazzi e strazi e schizzi e scazzi
e pazzi ghiribizzi?
Povero Yorick,
Il tuo cervello, il tuo cervello….
corre
per altri spazi ad altre
finzioni tormentose, nel fiato malsano
di maledette corti – osceni drappi
lo velano e rivelano
testimone infelice di trame e tragedie

ora non puoi nemmeno
scherzare con la polvere
col buio in cui crollarono i tuoi occhi
così inclini al sorriso

***

Immagine

Difficile riuscire a fissare l’esatta epoca d’esordio di quella costante, martellante, ricerca viscerale. Verosimilmente si era generata nel giorno, nell’ora inequivocabile, della mia comparsa al mondo quando, per la prima volta, ravvisai la luce.
La luce? Ecco, proprio nella luce si potrebbe celare il nocciolo di tutta la faccenda.
Quel giorno avvenne che, per una stravagante limitazione congenita anatomo-fisio-patologica analoga al daltonismo esitata in una sorta d’ossimorica percezione, ciò che dagli occhi altrui è abitualmente avvertito come bagliore, viceversa, i miei occhi l’avvertirono come buio pesto.
Fu così che vidi nell’avvio la fine da rivisitare all’indietro per arrivare, infine, all’inizio. Si originò un’implacabile aspirazione, una sorta di destino organizzato, una passione estrema, conclusiva. Acquisii la vocazione al suicidio.
Su questo cammino andai avanti, da allora, cercando affannosamente di allentare il buio pesto per riavvicinarmi alla luce, la mia luce.
Tutta la mia esistenza gravitò attorno a quest’attitudine, al conseguimento, nella sanificazione, dell’estasi assoluta. Ogni pensiero, proposito, progetto e consecutivo gesto celavano il fine, sconosciuto all’esterno, manifesto solo a me.
Con calma, freddai crudelmente il tempo in anni, mesi, settimane, giornate, ore, minuti, rovinando così, di volta in volta, le occasioni possibili rendendole impossibili.
In tale immutabile prospettiva la corporeità assumeva il ruolo dell’avversario da annientare ad ogni costo. Sussisteva solo quale occorrenza concreta, indiscutibile vincolo, oggetto tangibile e parte in causa da annullare. Io e il mio corpo ci ignoravamo.
Ogni sera, in ognuna delle smisurate sere tenacemente trascorse ed illuminate dall’irrevocabile vocazione, ho vagheggiato sulla seducente, gelida, sensazione d’una canna di revolver poggiata alla tempia con consecutivo, liberatorio, bang che conciliasse il sonno.
Poi arrivò quel tramonto qualunque, ero stanca, troppo stanca, inspiegabilmente.
Inspiegabilmente mi assopii d’improvviso sull’irremovibile poltrona, nella veranda.
Nella veranda poco prima dell’alba, sospingendomi incautamente il vestito, un disonesto sospiro di vento mi destò.
Distinsi un brivido e con mia grande sorpresa udì tutt’intorno un caotico eufonico cinguettio. Imitando un implume passero infreddolito mi rannicchiai, rigonfia, adducendo le braccia al petto.
I polpastrelli, in una momentanea svista, con ambigua mossa e indebito urto proibito lo sfiorarono procurando la piacevole, rinviata, sensazione di una sconfinata perversa carezza. La pelle reattiva, morbida, di tocco in tocco acquistava energia.
Indiscreta m’intrattenni a reclamare ed attendere le sue risposte.
Le ascoltai.
Stavo stringendo familiarità col mio corpo, col nemico di una vita, l’oppresso dall’ordine laico della mia vocazione.
La mia vocazione?
Non riuscivo più a disegnarne i contorni, i metodi, gli obiettivi e il finale fine.
Il dubbio.
Il dubbio dell’errore si stava impossessando di me come un rivolo calmo s’insinuava, quieto e leggero, mi stava inondando. Invadente.
Adesso era chiaro, adesso era l’alba.
In questa duplice convergenza, mentre la luce coincideva con la luce, la vocazione poteva essere revocata.
Ero in grado rinascere, ora.
Venire alla luce, ora. Schiudendo gli occhi avvertire il bagliore, ora.
Ma gli occhi non si schiusero. Ero morta.

di Afasia

***

Immagine

SDOPPIA//ME//NTO

“È accaduto di nuovo
quello sdoppiamento del grigio
e un’altra me stessa
mi stava di fronte. Identica e opposta.
Ancora. Ancora quella cosa
quella dannata cosa senza nome:
tu sei due! In un solo corpo.
Il tuo cervello è come se
appartenesse a due te
una che parla, si muove fisica
l’altra che pensa: chi sei tu? Cosa stai blaterando?
E nessuno se ne accorge.
Nessuno. Tranne te.
Che ondeggi spazio/tempo in pochi secondi.”

(Ilaria Pamio, 10 Oct 15 – 18.45)

***

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La testa si perde o si presta

– vorrebbe scambiare la mia testa per il suo sorriso?

Un fardello
da tenere in equilibrio
che si ritrova anche,
seguendo gli spifferi sul collo
che troppo leggeri
si rischia di essere felici,
davvero.

Di Cinzia Accetta

***

Immagine

-Vene ubriache di Jonathan Varani

La notte è sbucata dal ventre
acquattata per secoli nelle viscere
accompagnando la magia
delle notti impronunciabili.
Ti è spuntata dal costato,
dal quel tocco di cuore
a cui avresti tolto la bocca,
gli occhi
e in una tachicardia,
i ricordi.
La notte non smette di stillare:
ti versa da bere nelle vene
senza darti alcun limite di altitudine.

***

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ecco, tu sei tutto
ciò che non sono stata

occhi neri inconsapevoli che guardano
e non chiedono se gli uccelli soffrono
la solitudine dei rami dove s’impiglia la mia
stagione segreta
da sempre vivo nel vento
sdoppiato e saperlo è l’inferno
così inquietamente necessario a credere
che sarò ancora e sempre resterò
perché tu non abbia a perderti
che nel mio imbarazzo per questa tua
luce che perdona il cielo
scardinato da tutte le volte
che ho tentato gli estremi voli
in mancanza d’ali

di Sylvia Pallaracci

***

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È punto
nel moto lento
di un giorno.
Intorno al movimento
c’è un pensiero
vuoto d’infinito
di giù, in fondo,
il mondo
annichilito.

di Afasia

***

Yaya Suberg (2)

l’amaca fenice di Doris Emilia Bragagnini

nulla chiama così forte da farsi udire, è un movimento sotterraneo
il dispetto conquistato d’alfabeto e ho un piccolo lobo d’orecchio
o forse meglio un lobo piccolo
c’è sempre un modo migliore di dire le cose per esempio
c’ è un posto che non so quando dovrei dire quello che c’è
ma che non trovo – lo faccio scomparire
vorrei trovarlo per intero mi manca almeno quanto l’aria
tutta intorno se ci si sveglia nei giorni come crisalidi abbozzate
in un futuro pocket che pesa d’eterno
piccole dosi di massiccia confettura è limacciosa la sostanza
(congetturale) stringe sugli arti come carta moschicida
ti dondola sul nulla il palinsesto della vita, a favore di vento

il gancio – sospeso – al diritto d’uscita

***

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-Scabra Assonanza- di Rosaria Iuliucci

Sempre tesa nell’attesa –
filtrata nella smisurata attenzione come fossi luce
divenuta serra d’aria e poi
s_vestista di un linoleum che mi si posa addosso
come ombra im_perfetta e degna
di una dimora a corpo
che amabilmente imparara a sanguinare / ad aspettare
la giusta incisa direzione senza corsia
senza esigere l’aria e la sua regola necessaria .

Sono tesa nell’attesa e nel suo disonesto silenzio .
Inciampo in parole disattente che ancora mi rosicchiano la lingua , lasciandone al cuore l’unica percezione indecifrata dalla voce / scabra assonanza di rumore che si espia dalla notte senza lasciarne vapore .

***

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-Lezione di morte di Jonathan Varani

Avrebbe chiesto ammenda al cuore
se la liturgia del battito
non l’avesse disarmata
come un velluto contropelle,
una porpora nera
che scivolava tra gli archetti delle costole
verso tutti i desideri che la percuotevano dentro
con le nocche arrese e compiaciute,
-avvolta-
in quel laccio sacro che il suo demone
così diabolico e fedele, le offriva.

***

jaya

Quando, mi chiedo quando,
ti renderai conto che il prossimo non esiste?
E’ solo una tua proiezione,
lo spettacolo di un circo di cui tu sei contemporaneamente
domatore e bestia.
Quando, mi chiedo quando,
tu verrai,
se non quando sarò io a decidere
come fare a muoverti,
a ricomporti e poi distrarti,
a nasconderti e poi svenderti
al peggior offerente dei miei me.

Di Luca Gamberini

***

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L’ostia del tuo viso
è madreperla sfregiata dal calcare,

ti passo un dito e ti rompi
svenata preda dell’autunno

lupo,

per i fiumi di piume.

di Antonella Lucchini

***

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Che ore sono?
diosesidormivabene.
In effetti ero stanc*, mille e mille e uno anni che quello lì mi manda in giro, una volta in un posto un’altra nello stesso posto e poi in un altro ancora.
Come se dipendesse da me, come se ormai mi stessero a sentire.
Hai voglia di soffiare consigli e di spargere carezze.
L’altro giorno mi sono trovat* accanto a un bell’uomo che sapeva parlare solo di se, sempre di se, continuamente di se.
Parlava talmente tanto di se, che pure quello che facevano gli altri sembrava fosse riferito unicamente a se.
Allora mi sono vestit* da bella donna, un po’ tedesca un po’ sfacciata e gli ho detto che non era mica lui il centro del mondo che mica parlavano tutti e tutte di lui che mica insomma quella storia lì del battito d’ala della farfalla era riferita solo a lui, e che forse se faceva così era proprio perché lui stesso aveva paura di lui, insomma tutte quelle belle stronzate da filosofo new age tanto jung e tanto tanto freud e un po’ di cohelo e via dicendo.
E questo non mi bacia senza nemmeno abbassare lo sguardo?
Ma dico io in tanti anni mica mi era mai capitato, voglio dire certo, ho baciato scopato leccato e via dicendo, ma mica che uno manco mi sta ad ascoltare e mi sbatte lì contro un muro, mi fa l’amore ed io in mezzo al guado tra X e Y che me lo faccio fare come vuole lui e come, proprio come piace a me!

diosesiscopavabene
Dico si scopava talmente bene che lo abbiamo fatto e rifatto e poi rifatto ancora e alla fine lui rideva ed io mi sono addormentat*
E ora mi sveglio e sono così rilassat* che pur tirandomi la punta delle dita dei piedi questi non ne vogliono sapere di muoversi.
Allora me ne resto qui un po’ scapigliat* un po’ rincoglionit* spalle al muro nud*.
Comediomihafatt*

Lui vola via in alto, io mi aggiusto l’ala, che si fonde con la parete.

di Rosario Campanile

***

Immagine

Qui in questo tempo
con questi occhi
e una bocca che non tace

troppo soli
e poi si esce.

Non mi chiedere
di smettere di fumare
proprio adesso.

di Romeo Raja

***


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