Proust in loop/1

Da Anacronista
L'amicizia secondo Proust + premessa più lunga del previsto.
Ci sono libri che mi perseguitano. Più spesso, ci sono delle immagini o concetti contenuti in essi che mi partono in loop nella mente anche a distanza di anni e attivano processi incontrollati, liberi, gioiosi di coscienza. Partono poi altri flussi, altre storie, altre chiavi, ma prima di tutto il piacere in sé di rievocarle. Dei libri l'eventuale trama è l'ultima cosa che io ricordi; anzi, spesso la dimentico del tutto. Dei libri mi restano delle immagini senza contorno, tutta un'atmosfera, qualcosa di impalpabile, senza volto eppure con una nitida ed esclusiva identità, che va a sedimentarsi perché io possa ritirarla fuori a piacimento ed esplorarla nel suo inesauribile segreto di bellezza. Ho letto i primi 3 libri della Recherche ormai tanti anni fa, eppure ho ancora vive in mente diverse sue immagini, che mi ritornano a intervalli irregolari; non so perché avvenga - qualche volta, pensieri o situazioni che vi si possono furtivamente associare - ma so che è molto bello e singolare, ed è fonte di quella gioia particolarissima talora definita gioia intellettuale; un'espressione che forse tradisce la portata emotiva che possono avere dei concetti, delle scene, dei sensi dischiusi e ricchi di rimandi a un imprecisato, ma ricchissimo, altrove. Questo altrove della letteratura è oggetto di inesauribile tensione - cioè di prensione, che tuttavia strutturalmente alla prensione deve sfuggire: è, come si dice, inafferrabile, scivoloso, anche se in qualche modo senti di prenderlo, e forse è proprio in questo gioco contraddittorio che risiede la sua magia. Dovessi descriverla meno astrattamente, questa gioia, la assocerei senz'altro a un allargamento, un'espansione della coscienza, come la definì qualcuno. Ma come sempre avviene quando ho a che fare con la letteratura e con il cosiddetto bello, parlandone mi sembra già di fargli un torto, di tradirlo, una ridondanza. Perché il bello è bello non solo per il cosa, ma anche per il come, che deve restare intatto e dirsi da sé, e per il fatto di dire tutto di un qualcosa nel modo più suo che esista. Nel costruire, cioè, un mondo esaustivo di per se stesso, fulgido e quasi fiero dei suoi confini, che pure esso stesso invita a violare in un moto immateriale, potenzialmente infinito, di espansione. (Ecco, visto, ne sto parlando lo stesso).
Sicché, decisamente, voglio assecondare il loop. Dovevo esorcizzare questo luogo narrativo, che ho assimilato quasi  perfino a luogo della coscienza, e così sono andata a riprendermi i tomi della Recherche. Non ricordavo assolutamente il punto esatto in cui avessi letto questo passaggio, ma tante volte ho provato a trovarlo senza mai riuscirci; stavolta mi sono impuntata e alla fine l'ho trovato. Stava nel terzo libro, I Guermantes; una volta tra le mani, letta qualche frase, quella pagina mi è parsa subito inconfondibile.
Quando dico 'luogo della coscienza' è anche perché rileggendola, in effetti, questa pagina è diversa da come me la restituiva la mia memoria - che, evidentemente, ci ha ricamato impalpabilmente sopra; mi ricordavo la scena più ricca ancora di particolari, molto più lunga. Non nascondo, perciò, una sottilissima delusione - nella mia immaginazione era molto di più! ma già per questo, per aver suscitato questo incremento, merita una qualche forma di riconoscenza. In essa Proust descrive una conversazione a cena, cui partecipano l'amico Saint-Loup e alcuni militari suoi amici, nuovi invece al cosiddetto io narrante. Si tratta di una pagina che è un microcosmo e una finestra aperta su un discorso che può ramificarsi all'infinito; ma la sua forza sta nell'immagine compiuta, nel gioco di luci e di sguardi, nel mobile ondulare delle parole nelle pieghe delle cose. Questo vale anche per altre immagini, come quelle sul piacere della solitudine, o quelle in cui si parla del piacere prelogico, inafferrabile, perfetto, di ascoltare una 'frase' di Wagner suonata al piano, descritta a più riprese da Proust; e anche altro ancora - riuscirò mai a ritrovarle tutte? Ma forse è bello anche tenersele così, che continuano a vivere anche se le ho perse.
 Chi meglio di Proust ha saputo non solo ricalcare con le parole le onde imperfette, modulate e irregolari della coscienza, ma anche restituire quella strana ambivalenza e complessità della dialettica io e gli altri, spesso declinata come solitudine e amicizia? In altro modo, per altri versi, solo Dostoevskij; che forse devo dire preferisco a Proust, benché ora il loop non sia suo. Dostoevskij infatti è molto più nevrotico, restituisce  cioè un certo accento nevrotico non solo ai personaggi in sé ma anche ai contesti e alle loro relazioni, spesso perverse, inafferrabili, ottuse, incomprensibili; Proust al contrario è, nelle sue contorsioni, tutto dilatato. Se, come ho detto, Proust ha effetto espansivo, Dostoevskij senz'altro sincopatico. Dostoevskij non è rilassato, ha un che di febbrile; e preferisco i suoi terremoti alle passeggiate zigzagate di Proust che pure mi sono preziose. Ma prima che mi dilunghi oltre, riporto dunque la pagina che mi perseguitava; a questa seguiranno, spero, altre citazioni, anch'esse spauracchi narrativi che ho esorcizzato solo riprendendo in mano il colpevole. C'è mai un modo per descrivere il godimento intellettuale che mi procura questa, come altre, forse irrecuperabili pagine? C'è del feticismo in tutto questo, me ne rendo conto.
"Tuttavia, ero commosso di vedere quanto Saint-Loup si mostrava diverso nei miei confronti, ora che non ero più solo con lui, ma c'erano anche i suoi amici. La sua maggior cordialità mi sarebbe stata insofferente, se avessi creduto che era voluta; ma la sentivo involontaria, e soltanto in funzione di ciò che egli doveva dire di me quando io ero assente e che non mi diceva quando ero solo con lui. Nei nostri discorsi a quattr'occhi io mi accorgevo certamente del piacere che provava a conversare con me, ma questo suo sentimento restava quasi sempre inespresso. Adesso, quei medesimi miei discorsi, che solitamente gustava senza darlo ad intendere, Saint-Loup ne sorvegliava con la coda dell'occhio l'effetto sui suoi amici, il successo che aveva già scontato e che doveva corrispondere a quanto aveva preannunciato di me: la madre d'una esordiente non sta più fissa e intenta alle battute della figlia e al contegno del pubblico. Se ora dicevo una frase di cui, solo con me, egli avrebbe soltanto sorriso, temendo che gli altri non l'avessero afferrata bene, subito esclamava: - Come, come? - per farmi ripetere, per suscitare attenzione; e immediatamente volgendosi agli altri e guardandoli ridendo in modo da suscitare il loro riso, egli mi metteva sotto gli occhi per la prima volta l'idea che aveva di me, e che evidentemente aveva manifestata ai suoi amici. Cosicché io mi trovavo d'un colpo a veder me stesso dal di fuori, come uno che legga il suo nome sul giornale o che si veda in uno specchio. Mi accadde una di quelle sere di voler raccontare una storia assai comica sulla signora Blandais, ma subito mi fermai, ricordandomi che Saint-Loup già la sapeva, tanto che, essendomi messo a raccontargliela l'indomani del mio arrivo, mi aveva interrotto dicendomi: - La so, me l'avete già detta a Balbec -. Ma stavolta mi accorsi con stupore che Saint-Loup insisteva perché io continuassi, assicurandomi che non conosceva quella storia, la quale non poteva essere che assai divertente. Io gli dissi: - Adesso non ve ne ricordate, ma subito la riconoscerete . - Ma no, ti giuro che tu fai confusione. Non me l'hai mai detta. Coraggio -. E durante tutta la storia non distolse un momento i suoi sguardi interessati da me né dai suoi compagni. Solo quand'ebbi finito in mezzo alle risate di tutti, capii che egli aveva pensato che quel racconto mi avrebbe fatto fare bellissima figura presso gli amici, e appunto per questo aveva finto di non ricordarselo. Tale è l'amicizia." [M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Einaudi 1981, vol. II, pp. 107 - 108]


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